La Stampa, 15 marzo 2023
Gros-Pietro: «Le banche italiane sono solide»
Non è una Lehman, ma Svb si poteva salvare. Le banche italiane sono dunque al sicuro, l’economia europea ha basi solide, e aiuterebbe che la Bce «ci pensasse due volte» prima di alzare troppo i tassi. Alla fine, Gian Maria Gros-Pietro teme davvero solo il conflitto ucraino e il pianeta che si scalda. Tutto il resto, assicura il presidente di Intesa Sanpaolo, può essere affrontato, soprattutto se l’Italia sfrutterà come deve un Pnrr che gli pare «un cambiamento genetico» dell’Ue.
Il credito è nella tempesta. Presidente, davvero non dobbiamo preoccuparci?
«Sono altre le emergenze di cui preoccuparsi: il cambiamento climatico e la guerra in Ucraina per dirne solo due. Sono questi i veri problemi e richiedono in un caso investimenti, nell’altro, politiche attive».
E le banche americane?
«La Svb è un incidente, un caso marginale dovuto a inefficienza della gestione dei rischi e insufficienza della vigilanza».
Come è successo?
«È anzitutto il frutto di una scelta politica di Donald Trump, quella di innalzare la soglia prevista per le "not significant banks", le banche non strettamente sorvegliate. La Silicon Valley Bank era fra queste. Così si è permessa una serie di errori gestionali che hanno portato al crac».
Quali?
«Concentrarsi su un unico settore, cioè la Silicon Valley. Oggi è un comparto in difficoltà, dove i licenziamenti sono migliaia. Certo l’high-tech ha tuttora un brillante futuro, ma una banca specializzata su un solo comparto corre grandi rischi. Oltretutto, per buona parte del 2022 la Svb non aveva nemmeno un responsabile dei rischi. In sostanza, il primo errore è stata l’assenza della vigilanza».
Gli altri?
«La gestione. Avendo le mani libere, la banca ha sfruttato i bassi tassi cercando di fare profitti investendo la raccolta in bond e treasuries a lungo termine. Tutti pensavano che i tassi così bassi e negativi non sarebbero durati a lungo. Così hanno raccolto a basso costo e investito nella speranza di un alto ritorno. Conveniva. E la banca godeva di considerazione».
E poi?
«Alla sua attività concentrata nell’hi-tech corrispondeva un 94 per cento dei depositi non garantiti. In America sono tutelati sino a 250 mila contro i 100 mila europei. Svb aveva un valore medio di deposito pari a 4 milioni di dollari. I depositanti sapevano di correre dei rischi, essendo a conoscenza della composizione dell’attivo della banca. Quando la Fed ha alzato i tassi, si sono resi conto che il valore dei titoli scendeva e che loro depositi erano a rischio. E così hanno chiesto i soldi indietro. Priva della liquidità necessaria, la banca ha dovuto vendere i titoli. Ne hanno piazzati per 20 miliardi, perdendone 1,8. Questo ha causato il default».
Si poteva far qualcosa?
«La Fed ha fatto sapere che nessuno subirà perdite, impegnandosi a fornire liquidità, prendendo come collaterale i titoli a valore di libro. Se lo avessero fatto prima, la Svb non sarebbe fallita».
È una nuova Lehman?
«Assolutamente no. Non è sistemica. Lehman aveva una ragnatela di crediti e debiti che coinvolgeva l’America e l’Europa. Allora le banche italiane prestavano più denaro di quello che raccoglievano. Il margine mancante lo coprivano sul mercato interbancario americano. Quando questo si è chiuso, dopo il crac Lehman, le banche italiane rimasero prive di una parte della provvista, il che ha portato - fra l’altro – alla restrizione del credito. Svb non ha nessuna possibilità di creare crisi sistemica in Usa o Europa».
Come valuta la strategia della Bce sui tassi? C’è il rischio di fare troppo?
«Sì, come c’è stato il rischio di fare troppo tardi. Ci si era illusi che l’inflazione fosse temporanea. C’è stata una buona reazione da parte dell’Europa, il tetto ai prezzi dell’energia ha funzionato, il gas è sotto i 50 euro. Questo è un aspetto che la Bce deve considerare con attenzione. Deve agire per dissipare le aspettative che favoriscono l’aumento dei prezzi».
Hanno promesso un aumento. E c’è chi ne chiede altri. Cambieranno idea?
«Non so. C’è un motivo per non cambiarla: la credibilità che è cruciale per la Bce. Ricordo che Ignazio Visco ha detto una cosa fondamentale, alla fine pandemia: l’inflazione era figlia di uno choc di offerta. Questo, non si cura con la politica monetaria, bensì con investimenti mirati, frutto dell’impegno di governi e imprese».
E allora?
«Con il Next Generation Eu, l’Europa ha compiuto un cambiamento genetico, finanziando l’economia con debito comune, mossa che andava oltre i Trattati originali. Noi di Intesa lo sosteniamo con tutte le energie. A fronte di un programma europeo di circa 200 miliardi, abbiamo stanziato 415 miliardi, di cui 270 per le imprese. Tra il 2021 e 2022 abbiamo erogato già 124 miliardi. Questo è il ruolo del sistema bancario. È la cinghia di trasmissione tra la forza del risparmio degli italiani e la crescita dell’economia reale».
Se guidasse la Bce, aumenterebbe i tassi?
«Non sono Lagarde. Non ho gli elementi che lei ha, anche a riguardo degli umori dei componenti del Consiglio».
Dopo il ritocco di marzo, dovrebbe pensarci due volte prima di agire ancora?
«Sì. Ho apprezzato il coraggio con cui Visco non ha gradito le dichiarazioni su aumenti ulteriori. È stato prudente e garbato. Ha fatto capire che se si esagerasse sarebbe un errore grave».
Torniamo all’economia reale. Come va il Pnrr?
«È stato un cambiamento estremamente positivo. Va realizzato senza indugi. Procedere in un modo radicalmente diverso dal passato ha creato problemi di esecuzione. Il fatto che si manifestino, però, non deve scoraggiare».
L’Italia ha sempre fatto fatica coi fondi europei.
«È importante che tutte le forze politiche collaborino. Alla base del Pnrr ci sono impegni di riforma dell’economia e della pubblica amministrazione. È una esigenza assoluta. Il governo si pone il problema molto chiaramente. Fa bene. Non possiamo fallire».
L’Italia si oppone al Mes che, ricorda l’Ue, può anche garantire le banche, nel caso succedesse qualcosa di brutto.
«Il Mes non è uno strumento a cui ricorreremo. Non ci sono ragioni per farlo. È una specie di sistema di sicurezza. Se non lo sottoscriviamo, togliamo un’opportunità teorica agli altri. La mia opinione personale è che dovremmo aderire alla sua riforma».
Come stanno le banche italiane?
«Stanno bene. Si sono fortemente irrobustite negli ultimi anni. Hanno aumentato tutti gli indici dello stato di salute. Gli Npl sono diminuiti, siamo molto vicini alla media europea. Intesa Sanpaolo è naturalmente in posizione di privilegio, in anticipo sul piano d’impresa. Un grande tema è la transizione tecnologica».
In che senso?
«La quota di operazioni conclusa su strumenti digitali cresce spontaneamente. Bisogna migliorare questi strumenti e la loro sicurezza, i clienti vanno protetto dal cybercrime. Ciò richiede investimenti soprattutto in capitale umano. Lo stiamo facendo, è un lavoro impegnativo. Dobbiamo ampliare i servizi disponibili e semplificare le piattaforme. La nostra app è stata definita la migliore del mondo. S’impone una profonda conoscenza del cliente. Stiamo lanciando una nuova banca, Isybank, completamente digitale. Abbiamo acquisito una quota di Thought Machine, operatore leader nelle nuove tecnologie e nostro partner per lo sviluppo digitale. Il fronte d’azione è investire sulle persone».
Qual è la sua pagella congiunturale?
«L’economia italiana va molto meglio del previsto. Con un 2022 che si è chiuso positivamente, credo riusciremo a evitare una fase recessiva. Per il 2023 abbiamo rivisto la crescita del Pil dallo 0,6 a 0,8%. Viceversa, abbiamo ridotto la previsione per il 2024 da 1,8 a 1,5 punti. Come tutti».
Cosa la fa andare così bene?
«C’è l’effetto rimbalzo con una solida quota legata ai servizi. La pandemia ci ha colpito più di altri. Ma il manifatturiero italiano è andato meglio di quello tedesco per quanto riguarda l’export. Abbiamo catene di fornitura meno lunghe. Una minore delocalizzazione. I prezzi energetici sono scesi, anche il tetto ha funzionato. Ha stroncato le speculazioni. Si procede a rimpinguare gli stock di gas. Questo è un Paese che funziona. Siamo il meglio per lo stoccaggio e siamo bravi in molte produzioni».
I rischi peggiori?
«La guerra è il più grave e il più prossimo».
Se potesse fare una cosa sola, cosa sceglierebbe?
«Metterei tutte le energie sull’attuazione del Pnrr e sulla sua correzione, evenienza per nulla esclusa, anzi resa necessaria dai cambiamenti dall’esterno, dai prezzi e dalla disponibilità delle materie prime. E magari correggerei qualche ritardo di attuazione dovuto a riforme da accelerare. Il tutto in una cornice precisa. Quella del proseguimento di una politica dei conti pubblici responsabile e prudente. Questa è una scelta che si fa sempre apprezzare dai mercati. E non solo».