Avvenire, 14 marzo 2023
Se sia meglio scrivere un romanzo in prima o in terza persona
Vargas Llosa dice di Flaubert: «Nessuno ha fatto di più per promuovere il genere romanzo. Capì che il narratore è il personaggio più importante creato da un romanziere, e che costui può essere impersonale, onnisciente, pari a Dio, oppure un personaggio; e che possono esistere diversi narratori, capaci di variare il punto di vista».
Pasolini fu il primo, credo, a notare il subitaneo abile cambio di voce narrante nelle prime pagine di Madame Bovary, dove, secondo Vargas Llosa, «il narratore divino o onnisciente può alternarsi ai vari personaggi narratori, a patto che di ciascuno si sappiano potenzialità e limiti». Chi è, infatti, l’antico compagno di classe che ci descrive Charles? Non certo la stessa voce che descrive il primo incontro con Emma – un incontro sub cauda pavonis. E la sontuosa coda del pavone è la “mappa dispiegata dell’universo”, dice Flannery O’Connor. Che annota: «A parer mio quasi tutti sanno cos’è una storia, fino a che non si siedono a scriverne una». Proprio così.
Apparentemente l’autore sottoscrive con il lettore un pactum ludi, più o meno in questi termini: io, autore, ti racconto una storia, in una forma che la renda foriera di novità a te che mi leggi; e tu, lettore, consapevole della finzione, sospendi l’incredulità affinché si giochi sino in fondo questo gioco. Che non è passatempo ma vita, e richiede all’autore piena consapevolezza di scelta. Non vale, qui, l’interrogativo finale dell’inno alla creazione del Rig Veda che insinua con vertiginosa potenza eversiva il dubbio che forse nemmeno il Dio creatore sa della sua stessa creazione. Il piccolissimo dio che è l’autore deve essere consapevole, o non è. Egli ha avuto l’idea: dall’idea nasce una storia. Ora si tratta di scriverla. E, davanti alla pagina bianca, il primo dubbio è: con quale voce narrarla? Ovvero: narratore Esterno, Interno o Misto? La risposta non è sempre facile. Kafka iniziò il Castello in prima persona, e soltanto a metà del terzo capitolo optò per il Narratore esterno, chiamando, come già nel Processo, il sino ad allora anonimo protagonista, con la sola iniziale: K. Petronio e Apuleio affidano la narrazione in prima persona al protagonista principale, e altrettanto fanno Swift e Defoe, e lo forniscono di pezze d’appoggio: il riferimento agli antenati di Apuleio, il topos del manoscritto ritrovato di Swift o, in Defoe, le prove della reale esistenza di Robinson. Il genio di Cervantes opta invece per il Narratore Demiurgo, e questa voce narrante si palesa da subito con la celebre allocuzione allo «sfaccendato lettore» al quale presenta «questo mio libro, questo figlio del mio intelletto». Ma forse che la scelta del Narratore Esterno rende il Don Quijote meno o più moderno di Gulliver o Crusoe? Certo che no: il più venduto romanzo di tutti i tempi è anche uno dei più sperimentali romanzi di sempre, ma non per la scelta della voce narrante. Senza dimenticare che esistono romanzi dove Io narrante e Demiurgo si alternano. E Vargas Llosa indica Faulkner come miglior fabbro in questa tecnica. Quanto ai due campioni del modernismo, sembrano compiere scelte opposte: tutto “io” Proust (ma è un io che non coincide con chi scrive e che, in diversi passi del romanzo, si riserva una conoscenza demiurgica di fatti ai quali non ha assistito); tutto apparentemente esterno Joyce, almeno sino alle soglie di Finnegan’s Wake, ma non poi tanto come si potrebbe credere, visto l’uso del flusso di coscienza. Una cosa è certa: l’uso dell’Io narrante consente effetti di rara potenza, e tanto più a inizio di narrazione. Colpisce il lettore, operando una fulminea seduzione. “Chiamatemi Ismaele.”
“Sono un uomo malato. Un uomo cattivo. Un uomo sgradevole.” “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.” Tra l’altro, Dostoevskij e Nizan ci offrono in questo modo anche due esempi di cosiddetto “incipit della provocazione”. Per Melville si può invece parlare di incipit epico, mitizzante, e Conversazione in Sicilia offre un bell’esempio italiano: “Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto.”
Se l’incipit della provocazione incalza subito il lettore, quello mitizzante sposta per segmenti linguistici inavvertiti il tempo umano in una dimensione diversa, eterna. Un tempo che solo in parte può essere attinto dalla conoscenza sensibile, come il tempo perduto dei patriarchi.
Insomma, non è la scelta del Narratore a fare un’opera più o meno “moderna”: semmai, più o meno riuscita. Iniziare a raccontare una storia mettendola sulla pagina, comporta non solo il piacere del racconto, bensì anche quello di dare vita a una voce, di stimolare la curiosità, di provocare la pigrizia del lettore, che del resto proprio questo si aspetta: essere tratto dal comodo calduccio del letto o della poltrona per essere immerso, senza rischi reali, nel gorgo della vita. Il lettore però non sa quello che desidera, diventa necessario irretirlo, bisogna sedurlo. In questo anche il romanzo più antico può essere moderno. E infatti l’Odissea contiene in sé tutte le più raffinate tecniche narrative: ingresso in scena ritardato del protagonista, trama e sottotrame, analessi e prolessi, multipla agnizione e agnizione ritardata... Ah, eterna giovinezza del modernissimo Omero