la Repubblica, 14 marzo 2023
Perché l’Iran non è la Persia
Non riesco a farci l’abitudine.
Tutto è iniziato con un’intervista, per Harper’s Bazaar France, con l’attrice e attivista iraniana Golshifteh Farahani.
Abbiamo parlato del coraggio delle donne iraniane.
Abbiamo parlato della feroce repressione che si abbatte sul loro popolo. Abbiamo menzionato le condanne a morte, le impiccagioni, i proiettili veri usati contro i dimostranti. Abbiamo rammentato i tempi andati di quando La Regle du jeu lanciò la campagna di solidarietà nei confronti di una giovane donna che rischiava la lapidazione, Sakineh Mohammadi Ashtiani – e poi quando, ancora prima, io avevo proposto il termine fascislamismo per designare la grande regressione illiberale voluta dall’ayatollah Khomeini.
Abbiamo parlato dell’Ucraina.
Abbiamo espresso preoccupazione per l’ascesa di un’internazionale di assassini della quale fanno parte anche l’Afghanistan dei talebani, la Turchia di Erdogan o la Cina di Xi Jinping, senza sapere se il suo quartiere generale si trovi a Mosca o a Teheran. Ed ecco che la stampa e i troll al soldo del regime si sono scatenati.
Hanno insultato Goshifteh. Se la sono presa con la sua famiglia. E, a partire dalla distorsione di una pagina di uno dei miei libri, L’Empire et les cinq rois, mi hanno accusato di essere un diavolo che trasforma il popolo iraniano in “popolo nazista” … La verità è che in quel libro ho ricordato un episodio poco conosciuto, ma documentato dagli storici.
Il nome dell’Iran in farsi è sempre stato “Iran”. Il Paese, tuttavia, aveva un altro nome, quello di “Persia” con il quale era conosciuto in tutto il mondo, un nome associato mentalmente alla poesia, alla musica, alle miniature, alle porcellane, alle scuole di pittura, alle mitologie persiane. Poi arrivarono gli anni Trenta del XX secolo.
Nelle università tedesche di archeologia, di filologia e di linguistica fiorì un dibattito mirante a decidere dove si trovasse la vera culla della famosa “razza ariana”, scelta – così si diceva – per dominare il mondo.
Basandosi sull’omofonia tra le due parole, alcuni semieruditi giunsero alla conclusione che la patria degli “ariani” si trovava nel Paese dell’Avest? e dei suoi testi sacri, nell’antica terra i cui nobili abitanti si facevano chiamare ?ryas. Erodoto li aveva citati con il nome di Arii.Ecco che il primo dei Pahlavi – interessato ad affrancarsi dal protettorato britannico, ma desideroso anche di avvicinarsi a quell’altra “nazione ariana” che la Germania aspirava a diventare, e nella quale come molti altri vedeva il volto del futuro – cadde nella trappola e il 21 marzo 1935 annunciò con un decreto che l’unica denominazione ufficiale della Persia da quel momento in poi sarebbe stata Iran.
Suo figlio, salito al trono nel 1941, dopo essere stato costretto dagli Alleati ad abdicare avrebbe confermato nelle sue Memorie che suo padre, agendo come aveva agito, “aveva incoraggiato consapevolmente le relazioni tra la Persia e la Germania”.
Il primo Primo ministro del giovane scià, Mohammad Ali Foroughi, si rammaricò che il Paese di Dario, di Serse e di Fird?s? corresse così il rischio di amputarsi, “con un tratto di penna”, di una parte della sua memoria. Fu nominata una commissione di esperti che, diciotto anni dopo, raccomandò di fare marcia indietro e di ripristinare le due denominazioni. Ma il 1979 era ormai alle porte. I mullah, preoccupati di sradicare il passato preislamico, dichiararono la faccenda chiusa. Nell’uso internazionale, il nome nobile e bello di Persia cadde così nella desuetudine.
Questa vicenda è citata da tutti gli storici. È descritta con tutti i particolari nella monumentale Encyclopædia Iranica
conservata presso la Columbia University e curata, sotto la direzione di Ehsan Yarshater e fino alla sua morte avvenuta nel 2018, da alcuni dei massimi esperti di Iran.
Si può sempre pensare, naturalmente, che questa faccenda del cambiamento di nome non abbia più molta importanza e che oggi conti soltanto la rivoluzione delle donne, della vita, della libertà. Sarebbe sbagliato.
In verità, quello slittamento semantico spianò la strada alla deculturazione impegnata, avviata nel 1979 da quegli autentici fascisti che erano, e che sono, i Guardiani della rivoluzione. Quello slittamento semantico precedette la rabbia iconoclasta che avrebbe cancellato dalla bandiera nazionale il sole e il leone dello Zoroastrismo, e che a Esfahan, Tabriz e Teheran si sarebbe scagliata contro i monumenti e i simboli delle dinastie persiane.
Ricordo, per contro, quel giorno del 1971 in cui la sorella dell’ultimo scià donò alle Nazioni Unite una copia del Cilindro di Ciro e tutto il mondo scoprì che quella incisa nell’argilla, ventitré secoli prima della Rivoluzione francese, era la prima dichiarazione dei diritti umani.
Nelle grandi civiltà tutto è collegato. L’Iran è Iran soltanto se è anche Persia. E lì, come ovunque, la battaglia per i diritti è anche una battaglia della memoria. È molto semplice. Per prevalere, la rivoluzione democratica in corso dovrà reimparare a intrecciare quel triplice filo d’oro: lo sciismo, l’Illuminismo e il patrimonio del Libro dei Re.