14 marzo 2023
Gli abiti futuristi
«I rooooosssssi, rooooooosssissssimi che griiiiiiidano. I verdi, i non mai abbastanza verdi, veeeeeerdiiiiiiisssssimi, che striiiiiiidono; i gialli non mai abbastanza scoppianti; i gialloni-polenta; i gialli-zafferano; i gialli-ottoni. Tutti i colori della velocità, della gioia, della baldoria, del carnevale più fantastico, dei fuochi d’artifizio, dei café-chantants e dei music-halls, tutti i colori in movimento sentiti nel tempo e non nello spazio». Questi i colori da usare secondo Carlo Carrà, che li indicava nel 1913 nella Pittura dei suoni, dei rumori e degli odori, sprezzando «i grigi, i bruni, e tutti i colori fangosi».
«Colori muscolari, violettissimi, rossissimi, turchinissimi, verdissimi, gialloni, aranciooooni, vermiglioni», gli faceva eco, nel 1914, Giacomo Balla, elencando i colori dei vestiti futuristi. Colori volitivi, imperiosi e impetuosi come comandi sul campo di battaglia.
Convinto che «si pensa e si agisce come si veste», Balla contribuì alla nascita della moda futurista, che con i suoi esperimenti sugli abiti e sulle stoffe anticipò l’invenzione degli abiti costruttivisti sovietici e quella degli abiti simultanei di Sonia Delaunay.
Nel suo manifesto del vestito da uomo, Balla invocava abiti creati come godimento del corpo e strumento ludico, dina- mici e gioiosi. Deprecava le sfumature e le tinte neutre, “carine”, sbiadite, fantasia, semioscure, che avevano sempre vestito l’umanità di quiete, di paura, di cautela o d’indecisione, e il nero che avviliva il corpo, e le mezze tinte tediose, effeminate, decadenti. Non sopportava le tonalità e i ritmi di pace desolante, funeraria e deprimente. Disprezzava tutte le tinte e le fogge pedanti, professorali e teutoniche; i disegni a righe, a quadretti, a puntini diplomatici; i vestiti da lutto «nemmeno adatti per i becchini». Le morti eroiche non dovevano essere compiante, ma ricordate con vestiti rossi.
Gli abiti avrebbero dovuto essere illuminanti, cuciti cioè con «stoffe fosforescenti, che possano accendere la temerità in un’assemblea di paurosi, spandere luce intorno quando piove, e correggere il grigiore del crepuscolo nelle vie e nei nervi». E anche «semplici e comodi, cioè facili a mettersi e a togliersi, che ben si prestino per puntare il fucile, guadare i fiumi e lanciarsi a nuoto».
Nel 1915 arrivò Fortunato Depero, con la teoria del vestito trasformabile attraverso «applicazioni meccaniche, sorprese, trucchi, sparizione d’individui». Nel 1920 apparve sulla scena un giovane conte viterbese, Vincenzo Fani Ciotti, in arte Volt. Il conte si ispirò ai criteri di Balla e Depero per creare il manifesto della moda femminile futurista: «Faremo dei décolletés a zig zag, maniche diverse l’una dall’altra, scarpe di forma colore e altezza differenti. Creeremo toilettes illusioniste sarcastiche sonore rumorose micidiali esplosive: toilettes a scatto a sorpresa a trasformazione, armate di molle, di pungiglioni, di obiettivi fotografici, di correnti elettriche, di riflettori, di fontane profumate, di fuochi d’artifizio».
Quello che Piero Dorazio imparò da Giacomo Balla: «Non esistono le immagini senza tenere conto della luce che le compenetra e le fa palpitare insieme a tutto ciò che le circonda. Luce e movimento sono l’essenza della realtà. Tutto il resto è illusione, apparenza»
(da: Lauretta Colonnelli La vita segreta dei colori Marsilio)
«Colori muscolari, violettissimi, rossissimi, turchinissimi, verdissimi, gialloni, aranciooooni, vermiglioni», gli faceva eco, nel 1914, Giacomo Balla, elencando i colori dei vestiti futuristi. Colori volitivi, imperiosi e impetuosi come comandi sul campo di battaglia.
Convinto che «si pensa e si agisce come si veste», Balla contribuì alla nascita della moda futurista, che con i suoi esperimenti sugli abiti e sulle stoffe anticipò l’invenzione degli abiti costruttivisti sovietici e quella degli abiti simultanei di Sonia Delaunay.
Nel suo manifesto del vestito da uomo, Balla invocava abiti creati come godimento del corpo e strumento ludico, dina- mici e gioiosi. Deprecava le sfumature e le tinte neutre, “carine”, sbiadite, fantasia, semioscure, che avevano sempre vestito l’umanità di quiete, di paura, di cautela o d’indecisione, e il nero che avviliva il corpo, e le mezze tinte tediose, effeminate, decadenti. Non sopportava le tonalità e i ritmi di pace desolante, funeraria e deprimente. Disprezzava tutte le tinte e le fogge pedanti, professorali e teutoniche; i disegni a righe, a quadretti, a puntini diplomatici; i vestiti da lutto «nemmeno adatti per i becchini». Le morti eroiche non dovevano essere compiante, ma ricordate con vestiti rossi.
Gli abiti avrebbero dovuto essere illuminanti, cuciti cioè con «stoffe fosforescenti, che possano accendere la temerità in un’assemblea di paurosi, spandere luce intorno quando piove, e correggere il grigiore del crepuscolo nelle vie e nei nervi». E anche «semplici e comodi, cioè facili a mettersi e a togliersi, che ben si prestino per puntare il fucile, guadare i fiumi e lanciarsi a nuoto».
Nel 1915 arrivò Fortunato Depero, con la teoria del vestito trasformabile attraverso «applicazioni meccaniche, sorprese, trucchi, sparizione d’individui». Nel 1920 apparve sulla scena un giovane conte viterbese, Vincenzo Fani Ciotti, in arte Volt. Il conte si ispirò ai criteri di Balla e Depero per creare il manifesto della moda femminile futurista: «Faremo dei décolletés a zig zag, maniche diverse l’una dall’altra, scarpe di forma colore e altezza differenti. Creeremo toilettes illusioniste sarcastiche sonore rumorose micidiali esplosive: toilettes a scatto a sorpresa a trasformazione, armate di molle, di pungiglioni, di obiettivi fotografici, di correnti elettriche, di riflettori, di fontane profumate, di fuochi d’artifizio».
Quello che Piero Dorazio imparò da Giacomo Balla: «Non esistono le immagini senza tenere conto della luce che le compenetra e le fa palpitare insieme a tutto ciò che le circonda. Luce e movimento sono l’essenza della realtà. Tutto il resto è illusione, apparenza»
(da: Lauretta Colonnelli La vita segreta dei colori Marsilio)