il Giornale, 13 marzo 2023
Le ventiquattr’ore del giorno in cui fu ghigliottinato Robespierre
l nove termidoro dell’anno II del calendario rivoluzionario, ovvero il 27 luglio 1794, è noto agli storici come il giorno in cui Robespierre perse d’improvviso il suo potere e, nel giro di ventiquattr’ore, anche la testa. Gliela tagliò la lama della ghigliottina azionata dal boia Sanson, lo stesso che prima di lui aveva decapitato Luigi XVI e prima del re gli avversari della monarchia finché la monarchia era durata... Nata per alleviare le sofferenze degli squartamenti, la ghigliottina, è il caso di dire, non guardò mai in faccia a nessuno, ma rispetto al suo utilizzo al tempo dell’Ancien Régime aristocratico, la democrazia nata con la Rivoluzione francese ne fece un uso ancor più egalitario: ricchi e poveri, nobili e borghesi, colpevoli e innocenti. I «nemici del popolo» nel cui nome venivano messi a morte, erano di fatto più numerosi di quelli semplicemente contrari a un’istituzione, regno o repubblica che fosse, e fra di essi c’era appunto il popolo in quanto tale. Robespierre si era sempre considerato «l’amico del popolo», ma rispetto a Jean-Paul Marat, che di quell’amicizia si era fatto l’aedo nonché il direttore del giornale da lui fondato con quel titolo, aveva spinto la sua ambizione fino all’idea di esserne l’incarnazione, se non lo spirito. Era ovviamente un’astrazione, perché del popolo Robespierre ignorava tutto: non lo frequentava, non ne conosceva né i vizi né le passioni. La stessa Parigi, del resto, gli era ignota, eccezion fatta per le poche centinaia di metri che dalla sua abitazione in rue Saint-Honoré lo portavano alla sala della Convenzione o al Club dei Giacobini. Viveva nel culto del popolo e ne era l’officiante: non sapeva nulla però dei fedeli che ne facevano parte e lo rendevano possibile. L’ascesa, il trionfo e la caduta di Robespierre restano uno dei tanti enigmi della Rivoluzione francese. C’era gente più fanatica di lui e anche più ambiziosa e ridurre il suo nome e la sua azione al Terrore, come a lungo venne fatto, storicamente ormai non ha più senso. Gli va anche dato atto che quell’altro soprannome, L’Incorruttibile, di cui in vita si fece vanto, aveva una sua ragion d’essere, anche se in politica i «puri di cuore» sono spesso più un danno che una risorsa. A cercare se non di risolvere l’enigma, almeno di renderlo il più comprensibile possibile, ci pensa ora un poderoso saggio di uno storico inglese, Colin Jones, con una radicale cambio di prospettiva. Il suo La caduta di Robespierre (Neri Pozza, pagg. 678, euro 38; trad. Alessandra Manzi) ha infatti come sottotitolo «Ventiquattr’ore nella Parigi della Rivoluzione» ed è una sorta di tuffo nel passato andando a verificare, ora per ora, che cosa quel giorno accadde, ma non tanto o non solo nelle cosiddette stanze o aule del potere, quelle del Comitato di Salute Pubblica o della Convenzione, dei tribunali o delle stazioni di polizia ma anche nel cuore e nelle menti di chi in quell’arco di tempo fu a volte protagonista, altre testimone, se non semplice figurante, sempre più teso a rincorrere gli avvenimenti che a governarli, visto che fra causa e effetto non c’era un’unica conseguente logica, ma una serie pressoché infinita di opzioni. Colin Jones rovescia insomma l’ottica classica con cui la storia si costruisce ex post, ovvero sapendo come il racconto andrà a finire e trovando quindi una coerenza a ciò che coerente non era. Naturalmente, nella ricostruzione operata da Jones, molte pezze d’appoggio, memoriali, commissioni d’inchiesta, testimonianze, dichiarazioni, sono anch’esse il frutto del dopo, quando cioè la tendenza comune è quella di voler apparire non solo come se si fosse capito tutto, ma ci si fosse anche comportati nel modo più nobile, più coraggioso, più adamantino. Ma incrociando fra loro quei documenti e ripescando altresì tutti i dettagli puntualmente registrati sul momento, ordini, contrordini, segnalazioni e proclami, rapporti e resoconti di giornata il quadro che ne vien fuori è quello di una narrazione, osserva ancora Jones, «che sembra più grande della vita reale. Il nove termidoro fu un giorno in cui i fatti si dimostrarono se non più strani della finzione, certamente altrettanto avvincenti e sorprendenti». Il primo elemento che salta all’occhio è che non ci fu nessun complotto per far fuori Robespierre. Tallien, il deputato che con il suo attacco provocò la valanga successiva, aveva un seguito personale insignificante dentro la Convenzione, e il suo intervento fu talmente estemporaneo che sul momento oltre a spiazzare Robespierre spiazzò la convenzione stessa. Allo stesso modo, non c’era nessuna cospirazione ordita dallo stesso Robespierre per trasformarsi in «dittatore». Non solo non aveva i numeri per epurare dall’interno, ma, come spiega Jones nel constatare «lo stato di confusione in cui precipitò quel giorno», nonché «la disordinata insurrezione della Comune» che a esso fece seguito, «non ci fu alcuna organizzazione congiunta e neppure una qualche concertazione da Robespierre promossa o dai suoi sodali. La sorpresa e la costernazione che le loro azioni provocarono nelle assemblee di sezione e al Club dei Giacobini confermano che né Robespierre né i suoi sostenitori avevano lavorato tra la gente di Parigi per prepararla quel giorno a una sorta di colpo di Stato. I cospiratori come si è visto avrebbero per la verità continuato a improvvisare per l’intera giornata». Non c’era nemmeno, infine, quella «cospirazione straniera», una sorta di «controrivoluzione», divenuta per Robespierre una sorta di ossessione, ma che in realtà non era altro se non il volere una «repubblica della virtù» in contrapposizione «agli uomini corrotti» che le impedivano di farla passare dalla teoria alla pratica... Termidoro contribuì a mettere in chiaro alcune cose. La prima è che quando dalle parole si passa ai fatti, quando insomma il gioco si fa duro, sono i duri a scendere in campo, gli uomini d’azione, nella fattispecie. Non ci si riferisce ai violenti, agli esaltati. Quest’ultimi, purtroppo per Robespierre, stavano con lui in quella che era la Comune di Parigi, dal comandante della Guardia nazionale, Henriot, ubriacone inveterato nonché stupido cialtrone, al sindaco Lescot, incapace di gestire una situazione insurrezionale. Sull’altro fronte spiccò invece Barras, che sarà anche stato la sentina di ogni turpitudine, ma era un ufficiale di carriera, aveva valorosamente combattuto, era stato l’artefice della conquista di Tolone. La seconda, e la cosa vale per Robespierre come per Saint-Just e più in generale un po’ per tutte quelle persone che credevano in ciò che dicevano, la Rivoluzione, il Popolo, la Francia erano concetti seri, non parole in libertà. L’idea di tradire un mandato, il sospetto che li si potesse tacciare di ambizioni di potere, di smanie dittatoriali, li paralizzava. Nel momento in cui dalla Comune si decide di agire militarmente contro la Convenzione, ritenuta ormai «una manciata di cospiratori», e però in nome della Convenzione stessa di cui ci si ritiene gli unici membri legittimi, è proprio Robespierre a rinculare: l’appello all’esercito è oltretutto l’esatto contrario di quanto ha sempre sostenuto. «La mia opinione è che dovremo scrivere in nome del Popolo» fa sapere e in questo nominalismo legalitario, nell’idea che non bisogna prendere prima il potere e fabbricare poi la legittimità dello stesso, è presente il terribile fascino della politica come puro atto di fede.