La Stampa, 13 marzo 2023
Un fantasma di nome Kundera
Milan Kundera ha sempre amato molto una frase di Gustave Flaubert che dice: «L’artista deve fare in modo che la posterità creda ch’egli non abbia vissuto». È un tentativo al quale Kundera ha dedicato tutta la sua letteratura, e la sua vita. Ha fatto lo scrittore sottraendosi alla comunicazione. Per lui, scrivere ha significato scrivere e non spiegare, schierarsi, dibattere, dire, parlare, testimoniare, insegnare. Dal 1985 non rilascia più interviste, non va in televisione, non interviene sui giornali. È uno scomparso volontario.«Le nostre vite non sono di alcun interesse», ha detto Vera Kundera, sua moglie da oltre 50 anni, ad Ariane Chemin, la giornalista di Le Monde che si è messa sulle sue tracce per intervistarlo e, naturalmente, non ci è riuscita, ma ha scritto un libro su tutto quello che ha scoperto, ha capito, le è successo in mesi di ricerche, telefonate, viaggi, richieste.Ha fatto qualcosa di simile, molti anni fa, Terry Gilliam, quando non gli è riuscito di completare il suo film su Don Chisciotte e allora ne ha girato uno sul disastro che erano state le riprese, gli imprevisti, la sfortuna, dicendo di Don Chisciotte e del donchisciottismo più di quanto, forse, avrebbe detto con un film finito, completo. Don Chisciotte sta tutto nell’impossibilità di non fallire quando si cerca di rappresentarlo, così come Kundera sta nell’impossibilità di afferrarlo quando lo si vuole raccontare.In Francia, il libro di Ariane Chemin è uscito nel 2021 con il titolo À la recherche de Milan Kundera, mentre in Italia sarà in libreria da domani con il titolo Nome in codice: Elitár I (NR editore, con la traduzione di Francesco Maselli). Il titolo francese è perfetto, è il punto di Kundera per chi lo legge ed è il punto di Kundera per Kundera: stare in cerca. Migrare. Kundera è stato uno scrittore in esilio ed è, tuttora, uno scrittore migrante: per anni non ha potuto stare a casa sua, poi non ha voluto, poi non ha avuto più senso tornare. Vive, ultimamente malvolentieri, a Parigi, soffrendo quella che già nel 1986 definiva «la nostalgia dell’Europa», e quella consapevolezza che gli era chiara già nel 1981, quando disse al New York Times che «la casa, in fondo, è un mito». Non ha trovato il luogo del suo esilio, quello che, parlando di un suo amico scrittore ceco, aveva scritto che ci portiamo dentro di noi, da giovani. A lungo ha creduto che quel luogo fossero le isole, e a lungo, con Vera, le ha frequentate: Corsica, Martinica, Losinj. Poi anche le isole sono diventate insufficienti per placare la sua paura che qualcuno gli rubasse l’anima, che il fracasso del mondo lo condizionasse, e soprattutto insufficienti a farlo sentire a casa, nella sua casa elettiva, nel suo esilio elettivo.Certo, la folla, la mondanità, i giornalisti, le fotografie: Kundera scappa da tutto questo, ha paura che gli rubino l’anima «come un vecchio indiano», dice Vera. Soprattutto, Kundera scappa da Kundera: ciò che vuole essere, sta nei suoi libri. E così, per paradossale che possa sembrare, dai suoi libri si toglie. È l’unico scrittore vivente che lo fa. L’unico ad aver risposto sempre e solo «sono un romanziere» quando gli chiedevano di posizionarsi, di dire per chi votava, come la pensava. L’unico che s’è protetto per tutta la vita dalla «overdose di me stesso» che raccontò di sentire alla Paris Review, poco prima di sparire, dall’annullamento del privato che ha reso obbligatorio essere esemplari ed è l’unico che s’è protetto da quello che gli scrittori stanno diventando adesso: testimoni di un’esperienza (la propria), di una storia (la propria), di un’identità (la propria), di un corpo (il proprio).Tutti spaventosamente inconsapevoli di quello che ha scritto lui una volta: «La terra dell’uomo è il pianeta dell’inesperienza». Tutti spaventosamente vittime della pretesa che abbiamo tutti di avere in loro qualcuno da consultare: voci risolutive, ispiranti, chiarificatrici, divinatrici.Nel 2015, Chemin ha pubblicato sul Monde un’inchiesta a puntate su Michel Houellebecq che era un gigantesco ritratto, non autorizzato, dello scrittore francese che quell’anno era diventato il profeta della fine dell’Occidente, un cult, un feticcio. Lui non l’ha presa bene, si è sentito svilito e derubato, e l’ha prima denigrata pubblicamente e poi denunciata per violazione del diritto d’autore: il tribunale ha dato ragione a lei e torto a lui, che ha poi dovuto versare al Monde un risarcimento di 4000 euro. Houellebecq, però, è tutt’altro che un fantasma, o un enigma, o un mistero (le tre cose che sempre si dicono quando si parla di Kundera): è uno scrittore presentissimo, che però sceglie con chi parlare. Chemin ha spiegato di aver condotto quell’indagine per capire anche cosa c’era dietro quella selezione: se mistificazione, o furberia, o metanarrativa, o spirito del tempo, o niente di tutto questo, o tutto questo tutto insieme.Con Kundera è stato diverso?«Questi segugi di giornalisti devono essere impiccati», le ha detto Vera Kundera, quando si sono incontrate la prima volta, a Parigi, in un bistrot di rue de Saint Peres, da buona moglie di uno che ha sempre sostenuto che «nei Paesi comunisti la polizia ha distrutto la vita privata e in quelli democratici la minacciano i giornalisti».Dopo quell’incontro le ha mandato un sms e tutto è cominciato. Le ha raccontato quello che ha potuto, e pochissimo del loro matrimonio, «ci siamo sposati 190 anni fa, semplicemente per dormire nella stessa stanza». Un’unione che è stata alleanza e compagnia, divertimento e lealtà. Le ha raccontato quando, nel 2010, ha smesso di gestire da sola gli affari di suo marito e insieme a lui ha stracciato tutti i contratti, così che non ci fossero tracce, dopo aver ceduto i diritti stranieri all’agente letterario americano Andrew Wylie, che tutti chiamavano Lo Sciacallo: «Ho chiamato i netturbini e un quarto di secolo della nostra vita è stato ridotto in coriandoli». A Chemin, Vera ha raccontato le cene con Mitterand, inclusa l’ultima, quando lui disse a Kundera di godersi per lui un piatto di ostriche e Kundera, che le odiava, le mandò giù per amor suo. E quando Kundera scrisse Il libro del riso e dell’oblio, nell’estate del 1976, grazie a lei che aveva portato con sé la macchina da scrivere («Per sei settimane mi dettò la prima versione del libro. Abbiamo lavorato in costume da bagno in giardino, bevendo vino»), e lei era già quella per la quale lui raccontava ai giornali di scrivere: «voglio far ridere Vera». Ridere per Kundera è stato sempre importante, e forse non è stato capito così come lui stesso diceva che non è stato capito di Kafka: devi essere ceco per cogliere l’ironia della prima scena del Processo.In un articolo sul Guardian, qualche anno fa, Jonathan Coe ha scritto che l’importanza di Kundera sta nell’aver reso inscindibili, nei suoi libri, forma e contenuto. L’ha fatto anche nella sua vita, e c’è un libro che racconta come, senza spiegare perché. Alla maniera kunderiana.