Corriere della Sera, 13 marzo 2023
Su "Dante e la libertà" di Luciano Canfora (Solferino)
Si parte dal VI del Paradiso occupato interamente dal monologo dell’imperatore Giustiniano. Si continua con il canto I del Purgatorio dove Dante e Virgilio si imbattono nel custode Catone Uticense che dovrebbe autorizzarne il passaggio. Si approda al XXVI dell’Inferno, il canto di Ulisse. Dante e la libertà (Corriere della Sera - Solferino), il viaggio che Luciano Canfora ci invita a fare nella Divina Commedia, è un viaggio a ritroso, un viaggio pieno di sorprese, una progressiva messa a fuoco del «problema dei problemi», quello della libertà. Ed è impressionante la lucidità e la chiarezza con cui Canfora ci accompagna.
Si parte in realtà dall’antinomia tra Cesare e Catone, «i due poli della sua (di Dante) riflessione sulla migliore forma di governo»: un manifesto politico in prima persona (è Giustiniano che parla, è Dante che lo fa parlare), cui l’autore dedica uno spazio eccezionale facendone il proprio manifesto a difesa dell’impero universale. Il racconto della guerra civile che vide Cesare trionfare su Pompeo e sui suoi è la tappa centrale del notevole compendio di storia romana tracciato da Giustiniano, uno sviluppo che prende avvio da Enea, arriva a Carlo Magno e dovrebbe culminare in Arrigo VII secondo l’ideale dantesco.
Fatto sta che se in questo consuntivo storico la figura di Catone come anti-Cesare rimane in ombra, è perché essa è già entrata in scena potentemente alle porte del Purgatorio: Catone fu in vita un rappresentante dell’ideale repubblicano, tanto radicale che rispose alla vittoria di Cesare scegliendo il suicidio. È una sorpresa vedere un pagano suicida, che non piacque né ad Agostino né a Tommaso d’Aquino, essere assunto tra i salvati e non trovarlo invece nel VII cerchio in compagnia di Pier delle Vigne e degli altri violenti contro sé stessi. Ed è strano che Dante l’abbia persino strappato al limbo, destinazione degli spiriti magni non cristiani, ai quali pure viene risparmiata ogni sofferenza per meriti intellettuali e morali. Un privilegio che Catone condivide con Virgilio, anch’egli, in quanto grande pagano, abitante del «nobile castello» limbico ma con diritto di libera uscita. La terza eccezione è il poeta latino Stazio, collocato in Purgatorio in quanto convertito segretamente al cristianesimo dopo la lettura dell’egloga IV di Virgilio. La funzione profetica del sommo «maestro» e «autore» in direzione cristiana viene potenziata da questa promozione.
Ma insomma è soprattutto l’assunzione del suicida a guardia del Purgatorio, «“funzionario” del sovrano reggitore dell’universo», come lo definisce Canfora, a dare il senso della sconvolgente rottura compiuta da Dante. Perché questa rottura? Per Dante, Catone è colui che «vita rifiuta» in nome della libertà: ed è proprio quel gesto estremo, condannato dalla dottrina cristiana, a esaltarne il valore morale e civile al punto da fargli guadagnare il controllo all’ingresso del secondo Regno. Ruolo che Catone svolge con severità. La stessa mostrata ai due «viandanti» che approdano dall’Inferno contro ogni legge ultraterrena. A quel punto, sulla soglia, Virgilio impone a Dante di inginocchiarsi ai piedi del «veglio» prima di spiegare le ragioni che hanno ispirato il pellegrino a intraprendere quel viaggio: «libertà va cercando», esclama Virgilio, e precisa all’austero custode che quella libertà «è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta»: abile captatio benevolentiae per chi aveva scelto di morire in nome della libertà. Ecco che l’esperienza di Dante (cercatore di libertà cristiana) viene vertiginosamente accomunata a quella di Catone (cercatore di libertà politica fino alla scelta estrema).
È un Dante «eversivo» che costeggia intrepidamente l’eresia e tutt’altro che conservatore o reazionario, quello che Luciano Canfora legge alla luce della cultura classica, ed è libertà la parola chiave del poema: certamente la libertà politica di Catone non è la stessa libertà che Dante va cercando e che Beatrice gli ha promesso: la prima è la libertà del libero arbitrio, la seconda è quella del cristiano, concessa dall’alto. Ma, precisa Canfora, «è forse qualcosa in più», almeno a sentire Virgilio, che nel XXVII del Purgatorio si congeda dal suo adepto avvertendolo che ora, dopo quel viaggio, «libero, dritto e sano è tuo arbitrio». A ricordargli, con quella triplice serie aggettivale, che alla libertà teologica si accompagna necessariamente la padronanza di sé stesso entro termini di virtù etica («e fallo fora non fare a suo senno», ammonisce Virgilio: sarebbe un errore non obbedire a quella rettitudine e sanità conquistata nel cammino). Nulla a che vedere con la libertà liberalista, insomma. Ecco la lettura politica di Canfora, piena di tante altre sfumature (per esempio, il richiamo alla «consapevolezza del limite o della necessità» di impronta hegeliana).
A ciò si aggiunge l’esempio di Ulisse, moderno eroe della «canoscenza» al di là dei confini imposti da una visione cattolica: al suo cospetto Dante mostra il massimo della deferenza obbedendo all’ordine del silenzio impostogli dalla sua guida. L’ammirazione del pellegrino è muta di fronte alla sfida della curiositas lanciata da Ulisse, «una delle manifestazioni più alte del principio di libertà»: «fatti non foste a viver come bruti...». Non è un caso che la Commedia sia stata condannata per secoli dall’Inquisizione. Solo nel 1965 Paolo VI avrebbe pronunciato un discorso riparatore verso quell’uomo che aveva osato sostituirsi a Dio valutando quanto i suoi simili fossero degni o indegni del Paradiso. Atto incomparabile di libertà («folle volo»), di disobbedienza e di eresia.
Nell’antologia che chiude il libro, oltre ai tre canti di cui si diceva all’inizio, ci sarebbe stato bene il XXVII del Purgatorio con l’addio straziante di Virgilio, così come il IV dell’Inferno, il canto del limbo, dove il Dante «eversivo» dà straordinaria prova di sé.