Corriere della Sera, 12 marzo 2023
Su "Cose che non si raccontano" di Antonella Lattanzi (Einaudi)
Questa non è una recensione, ma un consiglio di lettura. Lo dico subito per evitare equivoci. Le recensioni esigono distacco, vigilanza critica, il bilancino della valutazione (qui è bello, qui no, qui mah). Invece a me piace così tanto leggere — e mentre leggo mi sento così pieno di comprensione per la fatica di chi ha scritto, — che raramente, a libro chiuso, ho voglia di riesaminare il testo scombinandolo. Nel caso, poi, di Cose che non si raccontano — il nuovo libro di Antonella Lattanzi edito da Einaudi, dove l’autrice è, nome e cognome, anche la protagonista assoluta, — recensire mi è sembrato non solo un esercizio inopportuno ma anche un addomesticamento, come se imponessi a un animale sconosciuto e sicuramente infuriato di porgermi la zampa.
Detto in poche righe il libro racconta la vicenda di una scrittrice che ha accantonato il desiderio di maternità per amore del suo lavoro. Ma intanto sono passati gli anni, il desiderio è cresciuto a dismisura, e la scrittrice ora prova ad affrontare la questione. Sia in lei che nel suo compagno tutto è in ordine, e tuttavia la gravidanza, che prima era facile e temuta, non si verifica. Così, passo dietro passo, bisogna ricorrere a ciò che scienza e tecnica offrono oggi a una donna — a una coppia — che vuole un figlio ma il figlio non viene.
Tutto qui? No, questo è solo lo scheletro comune a esperienze sempre più diffuse. Ma nell’organismo letterario inventato da Lattanzi lo scheletro è nient’altro che un supporto. Conta invece la carne, dentro cui si incista la vita in modo sempre più sorprendente, sempre più ingestibile. E conta che la carne è di una donna ormai svincolata dal ruolo ben educato, composto, subalterno, assegnatole dal racconto maschile. Antonella Lattanzi, autrice e personaggio, comincia direttamente col sangue che lo zaffo fatica a contenere, e non dissolve, non opacizza, non omette. Ci trascina sempre più in fondo, nel desiderio incontenibile di riproduzione, nei buoni sentimenti e nei cattivissimi che ne derivano, nell’ambizione, nel sacrificio, nel dolore fisico, nello strazio mentale, nelle manifestazioni tremende del corpo esposto al caso e al governo sgovernato delle tecniche e della scienza. Di più non posso dire, in tempi in cui si grida allo spoiler anche se si accenna alle avventure di Pinocchio. Ma fidatevi: Lattanzi non resta in superficie, la sua storia causa lacrime e furie e domande.
Sì, Cose che non si raccontano è un libro anche per alzare la mano e domandare, insomma per discutere. E mi auguro che lo si faccia sul serio, che lo facciamo innanzitutto noi uomini che leggendo ci riconosciamo in Andrea, il compagno regista di Antonella. Lei scrive e smania e soffre nella più assoluta solitudine, la carne è sua e deve cavarsela come può. Lui se ne sta fuori anche quando c’è, è un forzato alla riproduzione dall’affetto, corre sul set — il suo lavoro, la sua vita — come in un rifugio, è distratto, spaventato, annientato dal bombardamento di responsabilità indotte dall’amore. Lattanzi — autrice e protagonista — lo tallona, lavora a mettere a fuoco le risse e gli affiatamenti di coppia, i conflitti di genere e le tregue, lo scontro permanente tra mente femminile e mondo tuttora essenzialmente maschile. Ma ciò che davvero conta, nel libro, non sono tanto le contraddizioni che emergono. Conta invece che la sincerità ossessiva del racconto disegna una sorta di spazio della contraddittorietà su cui si sporge l’autrice e precipita la protagonista. Le domande vengono da quello spazio. Come possono coesistere la scrittura e la maternità, le ambizioni e il desiderio di un figlio, se non sei ricca di famiglia, se scrivere, pubblicare, o dirigere film, non significa, come le parole ancora ci spingono a immaginare, successo, agi, ma piuttosto affannarsi, esporsi alla precarietà, sgobbare per raggranellare appena il sufficiente a tirare avanti? Come si tengono insieme gli aborti di quando la carne giovane concepiva ciecamente secondo natura — una trappola per il bisogno di realizzazione, — e la volontà di donna matura che il figlio lo esige, ma intanto il concepimento che prima pareva facile ora è arduo, e la testa si allarma, l’arcaico si mescola al nuovo, la fantasia lavora su immagini di colpevolezza e punizione? Cosa bisogna fare quando l’organismo, spaventato dal tempo che vola, si subordina alla scienza, al farmaco, al medico, alla medicalizzazione, e intanto il caso lavora comunque sulla carne, e mente e corpo di donna entrano nella macchina di un ottimismo illogico, prelogico, che non vuole vedere l’evidenza della catastrofe? Come ci si difende quando si finisce prigionieri di strutture cattoliche colpevolizzanti che vedono nel dolore la via maestra della redenzione, tra medici e infermieri che agiscono per acuire i tormenti di donne considerate disprezzabili? Insomma cos’è la vita di una donna oggi, qualsiasi donna, qui, adesso, mentre il suo tempo si consuma e il bisogno di maternità l’incalza e la società intorno, lo Stato, la sentono di troppe pretese, si moltiplicano le voci e gli sguardi di riprovazione, non puoi volere tutto, cara mia, scegli, o lavori o fai figli, e anche il compagno-marito arranca, cede? La soluzione è l’esproprio della gravidanza, è la tecnologia dell’utero artificiale? Terreno minato. Il corpo della donna, si sa, e la riproduzione della vita, sono un ferocissimo campo di battaglia. Ce n’è abbastanza per accapigliarsi tra schieramenti di vecchia data. E Antonella Lattanzi s’è messa sotto tiro audacemente, con la sua storia estrema ha esposto se stessa autrice e se stessa protagonista come deve fare chiunque si dedichi sul serio alla letteratura.
La storia di Cose che non si raccontano è, come si dice, vera. In genere si usa ormai questa formula per risparmiare a chi scrive e a chi legge la fatica di sospendere l’incredulità. Qualsiasi cosa io ti racconti — dice l’autore o l’autrice — mi devi credere, è tutto realmente accaduto. E Lattanzi racconta, appunto, ciò che è davvero accaduto ad Antonella, a Toni, come preferisce farsi chiamare. Ma poiché è una scrittrice esperta, sa che alla letteratura non importa un bel niente che la storia sia vera. Anzi è consapevole che, se c’è una storia, la verità s’è già persa un po’ per strada. Le nostre umane vicende sono lì per lì puro caos. Mentre le viviamo non sappiamo mai cosa davvero ci sta succedendo. Il nostro attivismo esistenziale convive senza problemi con facoltà sensoriali e rappresentazioni psichiche annebbiate dal nostro stesso agire e reagire. Solo a cose fatte arriva il racconto che esclude, riduce, ordina, ed ecco quindi una trama agile, ecco il gioco di prolessi e analessi, ecco i personaggi, ecco la bella frase, ecco la suspence, ecco la storia ben articolata, godibile. Lattanzi non si accontenta di questo. Tende a restituire innanzitutto a se stessa non il resoconto dei fatti e nemmeno una narrazione elegante e fluida, ma il disordine che l’ha investita, lo scompiglio indotto dalla speranza nera e dalla disperazione ancora più nera. Di conseguenza chiama a raccolta tutto il lessico che ha acquisito, nomi di farmaci, nomi di tecniche, nomi di cliniche e ospedali, e lo fa urtare coi nomi comuni dell’attesa, dell’affetto, della supplica, degli insulti, della maledizione di una donna d’oggi che non sopporta più niente e nessuno. Il tutto mirando non al racconto asettico o palpitante ma a due effetti mirabilmente intrecciati: la rappresentazione psichica degli eventi insopportabili che il caso, il mondo le hanno riservato; e, parallelamente, la rappresentazione dello sforzo che con coraggio ha compiuto per dare a quegli eventi una forma scritta sincera, che evitasse la consolazione della scrittura infiocchettata e restituisse al lettore, nei limiti del possibile, lo scontro-incontro oggi, nella vita di una donna, tra l’assolutamente privato e l’inevitabilmente pubblico. Letto con l’unico sguardo di cui sono capace, quello maschile, il libro mi è sembrato insopportabile, imprescindibile, straordinario.