il Giornale, 12 marzo 2023
Intervista a Hélène Langevin Joliot, la nipote di madame Curie
Hélène Langevin Joliot ha 96 anni e quando la invitano a parlare di scienza ai giovani trova ancora la forza e la voglia di salire su un aereo. Con la sua Chanel, vecchia e piccola, a tracolla. Piccola perché il vero bagaglio, Hélène Joliot lo porta nel cervello e nel dna. Docente di fisica, instancabile promotrice delle professioni scientifiche tra le giovani donne, si illumina ancora quando parla di Marie Curie. Che per il mondo interno è la più grande scienziata di tutti i tempi, la prima donna a ricevere il Nobel, pioniera degli studi sulla radioattività. Per lei è semplicemente mamie, il vezzeggiativo con cui i bimbi francesi chiamano la grand-mère, la nonna. I ricordi sono confusi. Quando mamie è morta, nel 1934, lei aveva solo 7 anni. Ma nitide sono le immagini dei pomeriggi assieme in laboratorio a pasticciare con le sostanze chimiche e a osservare le loro reazioni. «Giochini» che in qualche modo le hanno segnato il destino. Hélène dalla nonna ha ereditato la grinta, la passione per la scienza e la voglia di insegnare ai ragazzi un concetto di conoscenza libera, democratica, buona. Ospite a Milano della fondazione Bracco, in occasione della giornata internazionale delle ragazze e delle Donne nella Scienza dell’Onu, ha trasmesso un concetto fondamentale agli adolescenti: studiare con gioia, con tenacia. Anche se è difficile, anche se il risultato non arriva subito. E soprattutto scegliere liberamente chi diventare, senza la pressione del «dover dimostrare». Lei lo ha fatto, pur avendo attorno una famiglia di super scienziati e 6 attestati di Nobel appesi al muro del salotto: 5 per materie scientifiche e uno per la pace (vinto da zia Eve Curie). I suoi genitori (Irene e Frédérique Joliot) vinsero il Nobel per la chimica per le scoperte sulla radioattività artificiale e fondarono il Centro nazionale delle ricerche francese. Ma non si è sentita schiacciata da tanti successi, non si è nemmeno sentita costretta dal suo cognome, ha solo respirato e assimilato una passione. Nel vortice di cattivi modelli, di influencer vuoti e di successi fatti solo di apparenza, la scienziata si fa portavoce di una famiglia che può essere una fonte di ispirazione illuminante per i ragazzi. E torna in Italia esattamente 105 anni dopo sua nonna, che visitò il nostro Paese per la prima volta nel 1918, alla fine della prima Guerra mondiale. Che ricordo ha di nonna Marie? «Ho ricordi di tante passeggiate assieme a lei, di noi due al mare sulla spiaggia. Amava gli animali, come il nonno le aveva insegnato a fare. Ma quando è morta avevo solo sette anni, quindi non so bene se quelli sono ricordi veri o indotti attraverso i filmini girati in famiglia e visti e rivisti. Per me era tutto normale, come era normale che avesse un Nobel. Insomma non era la grande scienziata. Ma la nonna». Immagino non fosse la classica nonna che le insegnava a fare la crostata? «No, però mi ha insegnato a fare i primi esperimenti. In cantina aveva una specie di laboratorio. Creavamo i cristalli e ogni giorno andavamo a controllare come crescevano, come cambiavano colore. Io ovviamente toccavo di tutto, non usavamo precauzioni, avrei potuto combinare chissà che guaio o ingerire qualche sostanza chimica. Meno male che oggi, per avvicinare i bambini alla scienza, esistono dei kit sicuri per gli esperimenti scientifici e i giochi in scatola». Com’era il laboratorio dove i suoi nonni scoprirono radio e polonio? «Era un magazzino spoglio, con i tavoli di legno, impensabile oggi. Una specie di rimessa poco riscaldata e poco riparata dalla pioggia. Non c’erano particolari protezioni perché nessuno conosceva i pericoli delle sostanze chimiche. Nonna non voleva definire quel posto ’hangar’ ma in una lettera scrisse: ’Se io e Pierre avessimo avuto più soldi, avremmo avuto un laboratorio migliore e raggiunto risultati più velocemente’. Tengo cara l’immagine dei miei nonni che la sera dopo cena se ne stanno al buio, incantati dal ’bagliore dell’oscurità’. Non era quello delle stelle, ma era la luce dei materiali che studiavano e ovviamente non ne conoscevano i pericoli». Anche i suoi genitori ricevettero il Nobel per la chimica nel 1935. Normale anche questo? «Mi ricordo bene quando arrivò il telegramma. Ci eravamo appena trasferiti e mamma e papà stavano sistemando la casa. Eravamo in giardino e ci fu un grande trambusto. Poi loro partirono per Stoccolma per ritirare il premio ma io ero piccola e non li accompagnai. Di fianco a quella casa fecero costruire una depandence per ospitare mamie». I suoi nonni hanno lasciato un baule con le loro lettere. Cosa si scrivevano? «Ho tutte le lettere del loro corteggiamento. Si scambiavano articoli scientifici e parole d’amore. Quando si conobbero, Marie a 27 anni scrisse sul suo diario: ’Sono rimasta colpita dal suo sguardo chiaro e da quel suo atteggiamento di abbandono’. Lui nelle prime lettere è entusiasta di come una donna possa avere un punto di vista scientifico ma diverso dal suo. E quando le propose il matrimonio, le scrisse: ’Sarebbe bello passare la vita assieme, ipnotizzati dai nostri sogni’». Cosa sa del loro matrimonio? «Per quell’occasione si erano fatti un regalo: due biciclette. Era il periodo in cui era scoppiata la moda e tutti ne avevano una. Nel tempo libero facevano lunghe pedalate nella natura e lì Pierre insegnò a Marie a riconoscere insetti e animali, a osservarne le abitudini. Era un grande appassionato. Quando mio nonno morì, inaspettatamente investito da una carrozza, lei soffrì tanto. Era il 1906. Poi decise di proseguire i loro studi e lo fece anche durante la guerra. Avviò la cura dei tumori e affiancò sua figlia e il genero – cioè i miei genitori – nelle ricerche sulla radioattività artificiale». Al dì là delle sue scoperte sulla radioattività, perché sua nonna è ancora un simbolo per la scienza? «Lo è non solo per quello che ha scoperto in laboratorio ma anche per la persona che è stata. Una donna emancipata che si è impegnata a portare parità di genere nella scienza. In Polonia frequentò le scuole clandestine perché alle donne non era consentito studiare, poi si trasferì a Parigi. Ma all’epoca il mondo degli studi scientifici era prettamente maschile. Tanto che in un primo momento il Nobel fu proposto solo a mio nonno Pierre, quando invece il lavoro era di entrambi. Posso dire che Marie fu, a suo modo, una femminista, mia madre Irene invece fu una militante, cioè si batté perché le donne potessero accedere più liberamente ai mestieri scientifici». In che modo sua nonna e sua mamma sostennero questo diritto pro scienziate? «Era il 1900. Si pensava che la scienza potesse risolvere tutti i problemi. Durante l’Expo di Parigi ci fu un congresso di Fisica in cui si parlò di radioattività. I nonni in quell’occasione chiesero di promuovere l’insegnamento della scienza. Mia madre invece divenne sottosegretario per la Ricerca scientifica in Francia nel 1936. E pensare che in quegli anni le donne non potevano ancora votare». E oggi, l’accesso delle donne al mondo della scienza è un diritto acquisito? «Lo è come forma, questo sì, ma nei fatti non lo è appieno. Conciliare figli e famiglia con la carriera professionale non è una via molto praticabile. Per lavorare nella ricerca ci vuole un grosso investimento in termini di tempo e sacrifici, bisogna stare lontano da casa magari per uno o due anni. E poi c’è tanta, troppa, precarietà. Di fatto vengono date molte borse di studio ma poi non corrispondono a veri posti di lavoro. La precarietà dei contratti penalizza in particolare le donne che fino a 40 anni non riescono ad avere una carriera stabile, quindi sono costrette a scegliere tra lavoro e maternità. Anche per questo, a livello globale, assistiamo a una stagnazione del numero di donne che intraprendono studi scientifici». Oggi nelle professioni scientifiche le donne sono solo il 30%. Cosa si può fare per invertire la rotta? «Bisogna gettare le basi per far sì che i giovani si avvicinino ai laboratori senza rinunciare alla loro vita privata. Quindi non basta ispirarsi a Marie Curie, bisogna proseguire il suo percorso di emancipazione». Da piccola avrebbe voluto studiare altro? La sua scelta di diventare una fisica è stata condizionata dal fatto di avere 5 premi Nobel in casa? «Non ho mai subito pressioni per iscrivermi alla facoltà di Fisica. Semmai, la mia famiglia mi ha trasmesso l’amore per la ricerca e la conoscenza. In casa del resto respiravo quel clima e per me era tutto normale. Ho felicemente seguito la strada di famiglia. Successivamente, ho capito che la loro concezione della scienza è stata emancipatrice, soprattutto per la nonna». Oggi c’è una donna che potrebbe sconvolgere il mondo della scienza oggi come fece la sua nonna? «Spero ce ne sia più di una. Nella nostra epoca ci sono più possibilità, abbiamo fatto grossi passi avanti sull’emancipazione e sulle strumentazioni dei laboratori. Perciò non escludo che più donne mettano a segno grandi scoperte». Un grosso insegnamento di Marie Curie fu quello di promuovere una scienza libera. «Per questo decise di non registrare le sue scoperte e di non blindarle con un brevetto. Io sono convinta che la conoscenza non sia qualcosa per pochi ma perchè sia utile deve essere di tutti. La scienza è un bene comune, qualcosa di collettivo, che può progredire quando si mettono in comune conoscenze e talenti». Quindi la scienza è democrazia? «Di più. È oro per la democrazia, per questo va rispettata e di certo non negata. Quelli della scienza sono principi dimostrati, acquisiti, non confutabili. Se lascio un oggetto, cade. La scienza spiega il perchè e non ha senso sostenere il contrario, altrimenti si ostacola il progresso». Cosa pensa allora della sfiducia della gente nella scienza e dei filoni di anti vaccinisti cresciuti durante la pandemia? «C’è stata una grande disaffezione ma sono convinta che nella scienza si tornerà ad avere estrema fiducia. Cito una frase di mia nonna, che diceva: ’Nella vita non bisogna temere nulla, bisogna solo capire’». I suoi nonni erano ben consapevoli che le loro scoperte sulla radioattività avrebbero potuto essere pericolose? «In una lettera, nonno scrisse: ’Si può immaginare che in mano a criminali il radio possa essere pericoloso e diventi un terribile mezzo di distruzione. Ma io resto tra quelli che pensano che saranno più i vantaggi’. E, per la medicina, è stato così. Insomma, io sono convinta che la scienza non sia né buona né cattiva. Tutto dipende dall’uso che se ne fa. Al contrario penso che la scienza aiuti a diminuire le diseguaglianze. Sono per la scienza buona». Ed ecco un altro grande tema perseguito dalla sua famiglia: la pace. «La pace deve essere un bene comune ma ci sono troppi interessi particolari che la mettono a repentaglio. Già Marie e Pierre furono due grossi fautori della pace: cercarono di promuovere il dialogo pacifista al posto del campo di battaglia e appoggiarono Bertha von Suttner, scrittrice austriaca autrice di Giù le armi! il primo best seller con tematiche pacifiste, pubblicato nel 1889. Il libro le valse il premio Nobel per la pace nel 1905. Dopo mia nonna, che lo vinse nel 1903, fu la seconda donna a riceverne uno. Quelli erano anni di grosse preoccupazioni, altro che Belle époque: c’era una diplomazia segreta fatta di alleanze e competizione molto delicata e c’erano le armi, che non garantivano certo la pace. E ancora oggi ci rendiamo conto di quanto sia importante».