Corriere della Sera, 12 marzo 2023
Severgnini intervistò Dustin Hoffman con la moglie nell’armadio (e poi sulle ginocchia dell’attore)
Londra, Mayfair. A un certo punto Dustin Hoffman mi accusa di aver messo mia moglie in un armadio, cosa peraltro vera. Le ordina di uscire e sedersi sulle sue ginocchia, altrimenti lui si alza e se ne va. Non ho obiezioni: Mr Hoffman ha già cancellato un’intervista, potrebbe rifarlo. Ortensia mi fulmina con lo sguardo, ma prende posto. Lui, dopo la prima risposta, sorride e la congeda. Ancora oggi, quindici anni dopo, mia moglie sostiene che Dustin Hoffman è stato un gentleman. Io, meno.
Mi rendo conto: serve un passo indietro.
L’intervista televisiva era destinata a Sky Italia, per cui Dustin Hoffman aveva appena girato uno spot natalizio. Attore fenomenale (Il laureato, Tutti gli uomini del presidente, Rain Man, Tootsie, Kramer contro Kramer), uomo impegnativo. L’appuntamento era a Milano, dalle parti di via Mecenate. Ricordo una giornata infinita, lui che entrava e usciva dal set, spariva in una «stanza del freddo», poi svaniva del tutto, poi rimandava, rimandava ancora. Noi eravamo pronti con un set dedicato, verde e scenografico, quattro telecamere. Alle nove di sera è risultato chiaro: l’intervista non si sarebbe fatta.
Com’è finita Ortensia in un armadio? Calma, ci arriviamo.
L’intervista, dopo l’insuccesso milanese, è stata riorganizzata a Londra. Appuntamento in un albergo di Mayfair, la produzione aveva affittato una stanza. Mia moglie, cinefila accanita, aveva chiesto di assistere (farà lo stesso con Woody Allen). Ma nella camera d’albergo di spazio non ce n’era: intervistato, intervistatore, regista, operatori, fonico, microfoni e telecamere lo occupavano tutto. Restava l’armadio: seduta sulla cassettiera, tenendo aperta la porta scorrevole, Ortensia avrebbe potuto seguire tutto.
Dustin Hoffman arriva a mezzogiorno, e saluta la troupe, educatamente («Wow, con tutte queste telecamere non potrò mettermi le dita nel naso»). Poi prova la poltrona. Non gli piace: «Troppo bassa. Mi sembra di essere un nanerottolo uscito da Il Mago di Oz. Questa poltrona va bene solo per dormire. Anzi, per fare sesso! Tenetelo presente». Terrò presente, dico. Prende una sedia, poi afferra la brocca dell’acqua e dice: «Ha una forma fallica». Mi giro verso il regista. Lui capisce: giornata impegnativa.
Partiamo. Quasi subito arriva l’armadio.
BS: «Ho visto i suoi film, ma non sono un esperto di cinema. Mia moglie, che ora è nascosta nell’armadio, invece sa tutto...».
DH: «Tiene sua moglie nell’armadio?!».
BS: «Be’, sì, dentro lì».
DH: «Non la vedo. Venga fuori, signora! Voglio vederla. Venga subito qui!».
Ortensia, sentendosi chiamata in causa, si sporge all’esterno, sorride e saluta.
DH: «Venga qui o non vado avanti con l’intervista! Guardi che mi alzo e me ne vado!». E le fa segno di sedersi sulle sue ginocchia.
Ortensia scuota le testa. Io, pilatescamente, dico: «Pe me, va benissimo». Lei ride nervosamente, entra in scena e si siede sulle ginocchia di Dustin Hoffman. Io passo alla domanda successiva.
DH: «Stia tranquilla, signora».
Ortensia frigge: «Sono imbarazzatissima. Posso andare?».
DH: «Ma certo, quando vuole».
Ortensia: «Grazie, è stato un piacere».
DH: «Piacere mio (in italiano). Ma adesso non torni a nascondersi! Rimanga qui con noi. Da quanto siete sposati?»
BS: «21 anni. Abbiamo un figlio di 15 anni».
DH: «Bravissimi. Io ho appena festeggiato il 27° anniversario. Ce ne vuole per superare i primi venti!».
BS: «Lei ha quattro figli, giusto?».
DH : «Sei. Ma chi li conta più!».
So che dovrò qualche spiegazione a Ortensia, più tardi. Ma, intanto, l’intervista procede. Dustin Hoffman è uno straordinario uomo di cinema, e una persona in grado di parlare di tutto. Ma ho sempre pensato che gli intervistati – un attore di Hollywood, un sottosegretario italiano – vadano stimolati, non costretti a ripercorrere il proprio curriculum o, peggio, a confermare cose già dette in altre interviste. Così passiamo a parlare dell’Italia, che Mr Hoffman sostiene di amare molto e conoscere poco: «Però so dire “li mortacci tua! e stu cazz!”».
BS: «È una leggenda hollywoodiana quella secondo cui lei avrebbe potuto fare Il Padrino nel ruolo di Al Pacino?».
DH: «La verità è che avevo letto il libro, splendido, e pensavo che quello di Pacino fosse uno dei ruoli più belli che un attore avrebbe potuto desiderare. Ma non mi presero neanche per i provini! Coppola aveva visto Pacino in uno dei suoi primi film. Decise immediatamente che voleva lui. I produttori, invece, volevano me perché mi ero già fatto un nome, e si sa come sono le case cinematografiche. Ecco come andò. Credo però che Coppola abbia fatto la scelta giusta. Nessuno avrebbe potuto fare meglio di Pacino in quel ruolo».
BS: «Che cosa sa dell’Italia? Ci viene spesso?».
DH: «Non posso dire di saperne molto. Ma con l’Italia ho un legame affettivo. Non so molto neanche del mio paese. Non so molto di niente, in realtà. Posso dirle però che gli italiani e gli italo-americani non sono... inglesi. Agli anglosassoni viene insegnato a non esternare le proprie emozioni. Voi italiani siete esattamente il contrario. Indossate le emozioni persino al polso».
BS: «Il primo film che ha girato in Italia?».
DH: «Alfredo Alfredo (Finché divorzio non vi separi) per la regia di Pietro Germi con Stefania Sandrelli, Saro Urzì e Carla Gravina. Li ricordo tutti. All’epoca stavo ancora con la mia prima moglie, una ballerina molto alta del New York City Ballet. Quando la conobbero, tutti i membri della troupe le fecero un inchino. Ora, bisogna immaginare che all’epoca –... posso alzarmi? – quando si presentava una donna, in Italia le facevano persino il baciamano. Non appena la donna si voltava, il loro pensiero era quello di fottersela! Lo trovavo molto onesto».
BS: «Onesto» mi sembra un giudizio eccessivamente benevolo.
DH: «Sì. È vero. C’è una parte molto rozza di me. Credo sia la parte dell’essere umano che tendiamo sempre a reprimere. Alla fine siamo tutti uguali: tutti andiamo al bagno, tutti ci mettiamo le dita nel naso quando nessuno ci guarda o facciamo scoregge sperando che nessuno se ne accorga. Di base siamo tutti fatti di gas e atomi, eppure cosa facciamo? Cerchiamo di darci sempre un’apparenza di esseri civilizzati, che indossano abiti eleganti e cravatte e parliamo educatamente. E, intanto, c’è un lato di noi che non vogliamo mostrare a nessuno, se non a chi ci è molto vicino. Credo che la sensibilità degli italiani, in questo senso, sia più onesta».
La conversazione procede, Dustin Hoffman è un fiume in piena. Parla dei suoi film («Non ho un preferito. È come con i figli. Dico ad ognuno di loro che è il mio preferito»), e spiega che non ama rivederli: «Quando il film escono, mi piace andare al cinema per sentire il pubblico che ride o si emoziona. È bellissimo, mi siedo dietro, per terra. Ma quando sono passati anni e, girando con il telecomando, càpito su un mio vecchio film, mi diventa insopportabile riguardarmi».
Gli chiedo se c’è un attore giovane in cui, in qualche modo, si rivede. Ci pensa un po’. «In effetti c’è un giovane attore che mi ricorda molto me stesso. Potrebbe davvero essere il mio erede. Scarlett Johansson». Rido: «In effetti, Scarlett le somiglia proprio. Quando l’ho vista in Matchpoint, ho pensato: “Ecco Dustin Hoffman col gonnellino da tennis!”». Lui, serissimo: «Scarlett è tutto quello che io avrei voluto essere».
Sto per rispondere: «Forza, Mr Hoffman, sia serio». Ma può dire una cosa del genere uno che ha messo sua moglie in un armadio?