Domenicale, 12 marzo 2023
Cinquant’anni di Amarcord
Federico Fellini non ha mai smesso di raccontare l’Italia e le sue mutazioni, sia le più evidenti che le più nascoste, e comunque vissute o viste da molto vicino, da artista che sa essere anche sociologo e antropologo... e che sociologo! Che antropologo! Da I vitelloni a La strada, da Il bidone a La dolce vita e su fino a Roma e a La voce della luna, il suo ultimo e il più sconsolato dei suoi film insieme al generoso e – dal punto di vista di uno come me che nel ’68 e ’69 ha molto creduto – maldestro pamphlet di Prova d’orchestra.
Ma è Amarcord, uscito 50 anni fa, nel 1973, il film che, pensato paradossalmente come una lettura critica del “noi italiani come davvero siamo”, è stato vissuto dal Paese come una simpatica perlustrazione dei suoi caratteri dominanti – per esempio il familismo, il classismo, un cattolicesimo di superficie e un persistente sottofondo fascista di cui ancora oggi avvertiamo con spavento la vitalità, non sempre sotterranea. Del successo del suo film (anche internazionale, per esempio nella Francia che se ne esaltò dopo essere rimasta invece fredda e sconcertata di fronte a Roma...) Fellini non si stupì, ma si stupì che gli italiani vi si riconoscessero con vero amore, e senza nessun sentimento critico verso chi eravamo stati ed eravamo... E in fondo La voce della luna, pur nella svagatezza della sua calorosa bizzarria, volle essere una critica messa a punto, a distanza, nei confronti di quella amorosa accoglienza...
Se Roma è Roma, Amarcord è decisamente Rimini, e attraverso Rimini una provincia tutta italiana che, quantomeno al livello della sua dominante piccolo-borghese non ha veri confini regionali. E ci ha rappresentato tutti, se è vero che la storia e gli ideali della piccola borghesia sono a tutti o quasi appartenuti, nel sogno caro a più regimi della tranquillità sociale raggiunta con le “mille lire al mese”. Un sogno di continuo aggiornato, sin quasi a oggi – ma quasi perché anche noi, come il mondo, ci siamo aggiornati secondo le norme di un capitalismo efferato, di una cultura (di una “comunicazione”) manipolata.
Come tutti gli ultimi film di Fellini, Amarcord ha in realtà due autori, così come nei suoi primi successi fu fortissimo l’apporto di Flaiano: Tonino Guerra-Fellini. Altri film, Fellini li scrisse con Bernardino Zapponi, che fu come Guerra anche un ottimo “creatore” anche in proprio, Tonino in poesia e Bernardino in prosa. Quando mi avvenne di chiedere a Tonino Guerra quanto dei ricordi su cui Amarcord era costruito fossero suoi e quanti di Federico, mi rispose candidamente: «I miei? L’ottanta per cento». Ma subito dopo volle precisare: «Io sono di Santarcangelo, che è in fondo una periferia di Rimini, e le cose che ho vissuto e visto io erano le stesse che aveva visto e vissuto Federico». Fascismo, guerra, ricostruzione: tre epoche ben diverse dalla nostra storia nazionale, così come attraversate da una piccola città di provincia, ancora legata, come quasi tutte le nostre, a radici contadine e artigianali prima che industriali, e dominata da una piccola borghesia dentro un terziario locale e di fronte a una burocrazia bensì nazionale, a una politica che da sempre ha messo in rapporto (e talora in conflitto) lo “strapaese” alla “patria”, alla nazione.
Di questo mondo Amarcord ha dato una rappresentazione esemplare, anche se – quantomeno nel modo in cui gli spettatori l’hanno accolta – infine compiacente, non così critica e approfondita quanto sarebbe stato necessario, come osservarono alcuni spettatori eccellenti di allora, per esempio, se ben ricordo, i Calvino e gli Sciascia. E i Flaiano, che ironizzò sul suo ex sodale intitolandogli vistosamente un Lungotevere nel mediocre film di fantascienza nostrana La decima vittima, scritto per Elio Petri. Ma tutti riconoscendo ad Amarcord il merito di una lettura quasi perfetta del nostro “chi siamo” e come amiamo apparire, a noi stessi per primi. E in ogni caso Amarcord resiste splendidamente alla prova del tempo: un “puro Fellini” che è anche un “puro Guerra” – un capolavoro di quelli cui il cinema italiano di quegli anni era tuttavia prodigo, e di fronte al quale non si può che restare divertiti, ammaliati, commossi. E si sogna un libro che ricostruisca il rapporto Guerra-Fellini con la stessa amorosa sapienza con cui Giovanni Agosti ha ricostruito quelli tra Testori e Visconti in un libro, Luchino (Feltrinelli) che è uno dei rarissimi capolavori recenti.