Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  marzo 12 Domenica calendario

Non fu Solo d’annunzio a conquistare fiume

Durante i sedici mesi dell’impresa di Fiume, D’Annunzio sviluppò un’intensa attività diplomatica volta a contrastare la reazione di Francia, Inghilterra e Stati Uniti contrari all’occupazione dell’italianissimo porto dell’Adriatico, a disgregare il nuovo Stato jugoslavo, a costituire una «Lega dei popoli oppressi» estesa dai «vinti della Grande Guerra» (Russia bolscevica, Germania, Austria, Ungheria) e a tutte le nazionalità calpestate sotto il tallone dall’imperialismo delle Grandi Potenze occidentali: Irlandesi, Turchi, Egiziani, Indiani, le masse musulmane del Medio Oriente, i «negri d’America».
Di questo ci parla il nuovo volume di Eugenio Di Rienzo, D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume (Rubbettino Editore), costruito sulla base di un’inedita e sterminata documentazione ricavata dagli archivi italiani, britannici, francesi e statunitensi. La novità di questo libro è però anche e soprattutto un’altra. Secondo l’autore, infatti, D’Annunzio, non fu l’incontrastato primo attore dell’epopea fiumana ma piuttosto rivestì il ruolo di semplice comprimario.
L’azione di D’Annunzio fu, infatti, ispirata e resa materialmente possibile dal concorso dei “poteri forti” economici, di vari gruppi di pressione politici, della Fratellanza massonica, della grande stampa. Furono queste forze che, intrecciando il loro lavorìo occulto con quello di spezzoni dell’apparato statale (Forze Armate, varie agenzie di intelligence, apparato burocratico), che consentirono all’impresa fiumana, finanziata, controllata e indirizzata dagli Stati Maggiori dell’Esercito e della Marina Generale, dai Palazzi romani, dalle grandi banche e dai complessi industriali dell’Italia settentrionale, di nascere, sopravvivere, consolidarsi, svilupparsi.
Fu, però, anche il Presidente del Consiglio Nitti a rendere possibile il blitz dannunziano e a conferire a Fiume il ruolo di altra capitale d’Italia per poco meno di cinquecento giorni. E di questo Di Rienzo, come un detective che riesce ad ammanettare il colpevole, quando questi impugna ancora la pistola fumante, ci fornisce una prova che sarà veramente difficile confutare.
Subito dopo la marcia di Ronchi, il generale Mario Nicolis di Robilant, allora Comandante dell’Ottava Armata nel Friuli, era stato raggiunto da un telegramma di Nitti che lo invitava perentoriamente «a provvedere col più estremo rigore per ristabilire ordine e gerarchia, a Fiume». Il dispaccio di Nitti, scrive Di Rienzo si era, però, incrociato con quello dello stesso di Robilant che, incredulo sulla facilità della passeggiata militare che aveva portato, senza incontrare nessun ostacolo, D’Annunzio nella città irredenta, domandava urgentemente spiegazioni e chiedeva quale linea dovesse assumere, con queste poche, secche parole: «Prego dirmi se il Governo è edotto movimento volontari a Fiume e se segretamente li appoggia e, in caso contrario, chiedo mezzi per agire con la massima energia».
Parzialmente rassicurato dal sopraggiunto messaggio di Nitti, che gli ordinava di reprimere la sedizione, di Robilant, però, non mollava la presa e spiegava, in un rapporto lucido e coraggioso (che in realtà costituiva un appena velato atto d’accusa contro il Primo ministro e lo Stato Maggiore del Regio Esercito), come era nato nel suo animo un dubbio tanto atroce che, per un momento, aveva messo a dura prova il suo onore di soldato e la sua lealtà verso le istituzioni. E nel farlo dava una interpretazione del tutto attendibile degli “errori” commessi dai vertici delle Forze Armate, dai Comandi locali, per malaccortezza, sconsideratezza, colposo lassismo, o forse aperto favoreggiamento agli ammutinati, che avevano portato a tanto disastro.
Altri sospetti, con quasi valore di prova, arrivarono, tuttavia, a tormentare la coscienza di di Robilant, il 13 settembre, quando, consigliato da Nitti a rinunciare al suo proposito di recarsi a Fiume, comprese che non si sarebbe dato seguito all’ordine da lui impartito di bloccare la strada ferrata e le comunicazioni stradali di accesso al capoluogo del Quarnaro, con profonde interruzioni del loro tracciato, e di usare l’artiglieria campale per mettere fuori uso l’acquedotto cittadino e per distruggere i depositi di benzina, armi, viveri.
Quelle direttive furono, infatti, revocate solo otto ore dopo, su ordine dello stesso Nitti. Alle draconiane misure decise dal Comandante dell’Ottava Armata (fortemente criticate da tutti i vertici della nomenclatura militare), si sostituirono provvedimenti molto meno severi, decisi personalmente da Badoglio ormai divenuto “padrone del gioco”, per l’appartarsi del Capo di Stato Maggiore, Armando Diaz, determinato ad assumere una posizione quasi neutrale tra fronte dannunziano e antidannuziano. Una posizione che, pur non approvando pubblicamente Diaz l’avventura fiumana, con la quale si consumava la tradizione di obbedienza e di apoliticità dell’esercito, gli permetteva di mantenere integra l’immagine di «simbolo della vittoria», agli occhi di tutti gli Italiani, consentendogli, al contempo, di non rinnegare il suo iniziale, e pur non del tutto convinto, appoggio alla politica di Orlando e Sonnino che prevedeva una forte presenza militare italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico. Anche Diaz, infatti, distolse il suo sguardo dai preparativi dell’impresa di D’Annunzio e poi favorì, o almeno non osteggiò, a fine novembre, la sua sostituzione con Badoglio, scopertamente vicino al «Partito di Fiume», nel supremo commando dell’Esercito, e vicinissimo a Vittorio Emanuele III che sotterraneamente, come Di Rienzo ha dimostrato in un’altra parte del suo volume, aveva appoggiato il colpo di mano del «Poeta soldato».
Se, infatti, Diaz, terminata la guerra, poteva apparire deciso a vivere distaccato dagli eventi in un dorato semi-pensionamento, in realtà non aveva certo mancato di manifestare ai suoi più vicini collaboratori e ai suoi confidenti più fidati l’accorato disappunto per l’andamento delle trattative di Parigi. Nella giornata del 15 maggio 1919, il «Generale borghese», il contraltare del roccioso Cadorna, il fautore di un rapporto di cordiale collaborazione tra Parlamento e Forze Armate rivelava, infatti, ad uno dei componenti del suo inner circle, i particolari del violentissimo alterco avuto con Vittorio Emanuele Orlando, da lui accusato di debolezza, d’insufficiente tempra morale, di mancanza di abilità di manovra, di deleterio spirito rinunciatario nei suoi rapporti con gli Alleati, durante la Conferenza della pace convocata a Parigi.
Anche il fattore Diaz spiega, allora, continua Di Rienzo, perché a di Robilant fu semplicemente concesso d’isolare la città da mare, con l’intervento della Regia Marina, e da terra, tramite barriere murarie e cordoni di soldati, provvisti, tuttavia, di un caveat che li obbligava di evitare qualsiasi spargimento di sangue, in modo da dare al blocco un carattere più apparente che reale. Allo stesso tempo, il Comando Supremo diede disposizioni d’inviare un bando alle truppe, macchiatesi di fellonia, in cui le si intimava di rientrare nei loro reparti entro 24 ore, evitando però di usare nei loro confronti, sempre per “consiglio” di Badoglio, l’appellativo di «traditori della patria», suggerito da di Robilant. Infine con un manifesto-proclama indirizzato ai civili fiumani, Nitti cercò di battere la via della moral suasion, evitando ogni minaccia di ritorsione violenta e limitandosi ad esortarli «a misurare bene le conseguenze della loro condotta».
A Fiume si ripeteva, dunque, sostiene Di Rienzo, un copione già visto nel 1860. Quando Cavour sostenne la spedizione dei Mille, pur dichiarando a tutti i Governi europei di averla avversata e ordinando poi al capitano di vascello Carlo Pellion di Persano di recarsi a Napoli per intraprendere «una guerra non dichiarata, sotto neutralità apparente, contro Francesco II, per modo che resti sempre al governo del Re, se questa fallisse, qualche appiglio per uscire d’inciampo». La strategia della «guerra per procura», conclude Di Rienzo, fu ereditata da Umberto Rattazzi, nel tentativo di arrivare alla conquista di Roma, senza rischiare uno scontro frontale con la Francia del Secondo Impero, servendosi nuovamente dei servigi di Garibaldi, per poi passare nelle mani di Nitti a meno di un anno di distanza di un anno dalla fine del primo conflitto mondiale.