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 2023  marzo 12 Domenica calendario

Biografia di Renée Vivien

Appena la porta viola ametista si chiudeva, una tenda pesante ricadeva ribadendo la distanza di Renée Vivien (1877-1909) dal mondo esterno. Si era trasferita dall’Inghilterra a Parigi appena raggiunta la maggiore età. Nel grande appartamento cupo e fastoso dell’Avenue du Bois, si respirava un’atmosfera da santuario. I vetri molati eludevano discretamente la luce esterna. Renée, all’anagrafe Pauline Mary Tarn, amava la penombra e il contorno impreciso che assumevano le cose, così simile alle fantasticherie di cui si nutriva.
A questa squisita poetessa, a lungo volutamente ignorata per le sue preferenze sessuali, Teresa Campi ha dedicato un’avvincente biografia, molto ben documentata e illustrata. Davanti ai Buddha che meditavano nelle stanze tra il fumo profumato degli incensi c’erano ciotole dorate con le offerte, riso e fiori. Non sopportando la luce elettrica, la scrittrice ricorreva alle candele. Un enorme gong di bronzo dorato vegliava su silenziose tribù di bibelot cinesi che emergevano appena dall’ombra. Nelle sue cene, su un tavolino basso orientale, coperto da una tovaglia nera, lo champagne si sposava con i cibi esotici. Lei si limitava a sfiorarli, preferendo i suoi cocktail ad alta gradazione alcolica. Chi, sentendosi soffocare, tentava di aprire una finestra si accorgeva subito che era bloccata.
Languida e desolata, frequentava un ristretto numero di persone destinato a restringersi sempre più. Come tutti i veri pessimisti lasciava raramente spuntare la sua tristezza – «Ah com’è disgustosa la vita!» – per poi scoppiare in una risata infantile. Renée amava le violette, fiore caro a Saffo; quando aveva scoperto quell’antica sorella, aveva studiato il greco per tradurla.
Una seduttrice inveterata, la scrittrice americana Natalie Barney, l’aveva introdotta al sesso, ma, pur continuando ad amarla, Renée l’aveva presto lasciata «disperata di non possedere la sua anima come avevo posseduto il suo meraviglioso corpo di donna». Restava delusa da ogni incontro. Non le bastava il piacere, voleva l’infinito.
Alle amiche sembrava un essere antico, esiliato nel mondo moderno, che vive nella nostalgia di ciò che è stato e di quel che avrebbe potuto essere. Indifferente alla massa, non aveva voluto sacrificare all’ipocrisia il suo lesbismo, mascherando i suoi amori e questo aveva accresciuto l’isolamento cui già tendeva il suo carattere. Un giorno si era presentata carica di fiori, a casa di una famosa poetessa, Anna de Noailles, ma non era stata ricevuta.
La sua fragilità era appena mascherata da abiti fluttuanti dalle tinte funebri, neri o viola, o, più raramente, bianchi, il colore del lutto nel Giappone che amava tanto. Renée si rannicchiava tra i cuscini del largo divano, «più fragile di una donna, meno leggera di un fantasma», ma non parlava mai del suo lavoro e della sua malinconia. Un giorno Colette l’aveva sorpresa a scribacchiare febbrilmente qualcosa. «Non è niente… Ho già finito». Poi si scusava: «Quest’abbondanza letteraria mi provoca un disgusto profondo ma non posso farci niente. Speriamo che presto arrivi un periodo di aridità».
A tratti la sua riservatezza si scioglieva e poteva parlare senza il minimo imbarazzo, con cruda innocenza, dei suoi piaceri sessuali. Beveva di nascosto; poi faceva, nel bagno, dei gargarismi di acqua profumata per cancellare il sentore dell’alcol.
Alta, sottile e flessuosa, la corona di capelli biondi sembrava pesarle. La sua incapacità di vivere si manifestava quando usciva e subito perdeva i guanti, il fazzoletto, l’ombrellino o la sciarpa. Non le interessava il denaro. La sua seconda amante, la ricchissima baronessa van Zuylen, una Rothschild, che la convocava imperiosamente a qualsiasi ora, la inondava di doni che lei accettava con distratta gratitudine.
Sembrava aspettare con impazienza la morte, l’unica in grado di liberarla da quella gigantesca seccatura della vita. Anoressica, alcolizzata e drogata, aveva tentato il suicidio a Londra, allungata su un sofà con un mazzo di violette tra le mani, ma l’avevano trovata in tempo. Ormai febbricitante, tossiva continuamente, pesava trenta chili e aveva bisogno di un bastone per stare in piedi. Lei che era stata misticamente pagana, si era convertita. Era morta a trentadue anni, nel 1909; una cascata di violette copriva la bara bianca. «Per Afrodite, ho disdegnato Eros, / Perché solo da lei ho gioia e angoscia. / Io non cambio, Vergini di Lesbo, / Io sono eterna».