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 2023  marzo 11 Sabato calendario

William Carlos Williams da medico fece nascere duemila bambini da poeta tanti discepoli solitari (e Ginsberg)


Esiste una figura particolare di medico, che sempre più solitaria e malinconica diventa, che non può esimersi dal dedicare l’ultima parte della sua visita a una confessione personale: appoggiato con titubanza allo schienale della sua poltrona, dirà che sta scomparendo. Che i medici disposti a confrontarsi con il corpo di chi va a chiedergli un consiglio o una guarigione, sono una cosa del passato. Perché adesso i dottori non vogliono più mettere le mani sulle persone, non vogliono sentirle, e non vogliono toccarle. La professione ne perde, qualcosa nell’anima pure.William Carlos Williams, che nel corso della sua professione ha fatto nascere più di duemila bambini, doveva toccare per forza le persone. Senza voler ridurre il poeta americano alla professione che esercitò per tutta la vita, è pressoché impossibile non immaginare che ci sia un nesso tra le due cose, e che non si possa individuare un’azione comune che possa descrivere tanto la sua scrittura quanto la sua facoltà di curare gli altri.Una specie di movimento che tiene tutto insieme: entrare dentro, per tirare fuori.Tradotto storicamente da Cristina Campo, Vittorio Sereni e Vincenzo Mantovani tra gli altri, William Carlos Williams riappare oggi con A un discepolo solitario attraverso l’interpretazione di Damiano Abeni, con una selezione di poesie a cura dell’americanista Luigi Sampietro. Ogni traduzione e curatela del poeta originario del New Jersey va presa nella sua felice parzialità, dato che come scriveva Cristina Campo l’opera di Williams si configura come un «lunghissimo e minuzioso diario cosmico»: fermare e raffigurare gli astri è complicatissimo per chi li vede per primi e prova a rivelarne la meraviglia al mondo, figuriamoci per chi si mette a raccontare quelle intuizioni ad anni luce di distanza.Da grande fratello maggiore più che padre della poesia modernista negli Stati Uniti – c’è qualcosa in lui che fa desistere dalla gerarchizzazione tradizionale dei ruoli, nonostante la carica assunta in ospedale e nella cittadina industriale in cui operava -, William Carlos Williams riappare puntualmente, ed è destinato a ricorrere: dall’ossessione ispirata in Allen Ginsberg che pure lo definiva un padre e un mentore, al giovane autista del film Paterson di Jim Jarmusch che vuole fare una poesia delle piccole cose senza aspirare a una gloria eccessiva, ai tentativi di molte poetesse e poeti di confrontarsi con la sua eredità senza cadere negli stereotipi di una poesia troppo vincolata alle immagini e alle cose, in perenne fuga dalle astrazioni.Tra l’altro, come ricorda Sampietro nella sua introduzione, era Ezra Pound quello che già a vent’anni aveva la postura missionaria e il cipiglio di chi si atteggia a «maestro di coloro che sanno», e infatti Williams assegnava a quell’incontro la stessa fatalità di un incontro con Gesù Cristo: c’era un prima e c’era un dopo. Persino quando impazzì o fuoriuscì dal suo centro, restarono amici.A volte su William Carlos Williams pende la condanna impartita da Robert Lowell dopo la sua morte nel 1963, quando disse che era stato un «modello e un liberatore» ma anche un poeta che sfortunatamente può essere imitato nell’anonimato, come in fondo rivela il film di Jim Jarmusch. Eppure Lowell diceva anche che Williams «riesce a entrare in me, ma io non riesco a entrare in lui. È come se nessun poeta a parte Williams avesse visto l’America, e sentito la sua lingua.»Proprio a questo proposito è particolarmente toccante, considerando la storia sociale e demografica degli Stati Uniti, soffermarsi sul fatto che Williams è nato da una madre portoricana di origini basche e francesi, e come rileva il curatore di A un discepolo solitario, ha parlato quasi esclusivamente spagnolo fino agli anni dell’adolescenza. Come se una lingua sotterranea o inabissata o altra gli avesse dato un accesso privilegiato al parlato del sentire comune, quello delle donne e degli uomini in cui si imbatteva tutti i giorni al lavoro.Le questioni riappaiono: così come l’americano aveva problemi a legittimarsi come lingua poetica affrancata dalle lettere europee e sono stati Whitman e Williams a fare un lavoro di peso per renderlo popolare, oggi sono le poetesse e i poeti segnati da altri apporti linguistici a scrivere i testi più ricettivi di una vita moderna e americana che si reinventa ogni giorno.«È tanto strano per me, qui nel crepuscolo moderno» scrive il poeta di Paterson in chiusura alla poesia Quel che resta di una canzone, tratta dalla serie I caratteracci del 1913. Quel modern è un sonaglio pericoloso, quasi rilevatore, e fa pensare a un poeta altrettanto appassionato di oggetti, Frank O’Hara (volendola raccontare sempre per oggetti, Williams mangiava le prugne e O’Hara beveva le coca cole). In Majakovskij O’Hara esclamava «Adesso sono in attesa che la catastrofe della mia personalità torni ad apparire bella, e interessante, e moderna».Se per O’Hara il moderno è seducente e ha un erotismo tutto suo, in Williams – che faceva parte del turbinio di modernisti destinati a spaccare la forma per trovare nuove vene e canali di espressione –, il moderno può essere anche crepuscolare e misterioso, un posto tanto strano. In questa stranezza Williams si muove così, prendendo in giro la sete abissale che certe volte prende chiunque, di primavera: quanto sono preziosi i versi di chiusura a Senti che profumo!: «Devi proprio assaggiare tutto? Devi conoscere tutto? Devi svolgere un ruolo in tutto?».Anche chi traduce, per forza di cose, deve toccare, e provare a dare un peso, proprio come farebbe un medico dei tempi andati. Se sente una parola tumefatta, cerca di non illividirla oltre, e se sente un verso troppo leggero, deve esercitare un sommo controllo su di sé, per evitare di dominarlo e dargli una gravità che non ha, a prescindere dal suono di quella parola in questa nuova lingua, a cui forse non si era mai immaginata di arrivare: chi traduce a volte mette sulla bilancia piombo e stelle, foglie e ghiaccio, tentando di arrivare allo stesso peso.E così una parola così forte in bocca come whorishness riferita al piacere di due amanti nella poesia Pioggia per Cristina Campo diventava «ruffianeria» e per Abeni è la «puttanicizia», parola di Belli rilanciata da Carlo Emilio Gadda, e in entrambi i casi si sente una mancanza dell’inglese che sa trasformare ogni materia greve in un sentimento, e ogni idea possibile in una cosa, con una sublime sporcizia che si rivolta nella polvere generata dal suo stesso movimento. Ma la mancanza fa parte di questo progetto umano, in cui William Carlos Williams metteva gli spazi, lui che come gli uomini delle sue poesie aveva solo gli occhi per parlare.