Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  marzo 11 Sabato calendario

Un romanzo che arriva dalla Russia

I romanzi sono metamorfosi. Non smettono di trasformarsi durante la stesura. Non smettono di riconfigurarsi nella molteplicità delle letture, delle traduzioni, degli adattamenti, i loro riflessi cambiano nel variare della luce. Mutano nel tempo, alla stregua di una materia vivente. Per questo è abbastanza difficile seguirne l’andamento e numerose volte mi sono trovata davanti a una frase, un brano, un libro che avevo scritto e mi sono sforzata di ricordare quello che era accaduto prima, prima di quella frase, di quel brano, di quel libro da cui derivavano.Prima di Tangente vers l’est c’è un viaggio in Russia. Il romanzo arriva da lì. Il 2010 è «l’Anno franco-russo», detto anche l’anno della Russia in Francia e l’anno della Francia in Russia. I Paesi si ospitano a vicenda. Scrittori russi vengono in Francia, scrittori francesi vanno in Russia, e io sono tra questi ultimi, invitata a bordo della Transiberiana. Non sono mai stata in Russia. È un Paese che mi impressiona. Sono una figlia della Guerra fredda, cresciuta in una città comunista, e la Russia ha mantenuto a lungo ai miei occhi il volto smorto dell’Unione Sovietica prima di assumere quello di un Far East consegnato al caos e poi quello del regime autoritario di Vladimir Putin. Mi rendo conto di percepirla attraverso una raccolta di immagini dove collidono un frutteto che si deve vendere, il viso di Yuri Gagarin, una carrozzina che cade da una scalinata, la foto di famiglia dei Romanov, una partita a scacchi, le chiese dalle cupole dorate nella Piazza Rossa, un chapka, Lenin che arringa la folla, Anna Akhmatova e Ossip Mandel’štam, le cucine della dissidenza, Chernobyl, una bottiglia di vodka. Non conosco nemmeno una parola di russo. Decido di partire.Arrivo di notte a Novosibirsk, dove la Transiberiana degli scrittori francesi fa tappa, e prendo il treno in corsa per un viaggio che durerà quindici giorni. Ci sono seimila chilometri fino a Vladivostok. Ho la fronte incollata al finestrino. Prima la pianura grigiastra, lanosa e monotona, poi i rilievi che si dispiegano attorno a Krasnojarsk, e poi ancora la steppa sterminata, assurda, ipnotica. Scopro che il treno è un microcosmo ambulante, una proiezione orizzontale della società russa, un mondo diviso in tre classi dove regnano le provodnitsas, le controllore della Transiberiana, donne severe e leggendarie che sanno tutto quello che succede a bordo. La primavera è al termine, tutto si scioglie, i fiumi sono gonfi e possenti, tumultuosi. Prendo appunti sul mio taccuino, parole, espressioni, la ricetta del bortsch di Natasha, ma non scrivo niente – per me la scrittura viene sempre in un secondo tempo, in differita. In terza classe ci sono soldati giovani e sbronzi, percorrono i corridoi in gruppetto, ignorano la loro destinazione finale, sono chiassosi per tenere lontana l’ansia. La loro presenza è il segno che la guerra non è mai molto distante in Russia, e ovunque è s,.pettrale. Li osservo durante le fermate, quando sgomitano giù dalle pensiline, si strappano di mano le sigarette, smunti, gli occhi vitrei. Il treno viaggia verso est a cinquanta chilometri all’ora, risale uno alla volta i fusi orari, il mio orologio si sregola, la vodka mi brucia la gola, ho il capogiro. Le notti sono così buie che i finestrini dei vagoni si trasformano in specchi.Di ritorno a Parigi comincio a scrivere. Un radiodramma. Voglio far sentire il treno, la sua cadenza caratteristica, il suo fastidioso tadum dadum, tadum dadum, il suo stridio metallico. Elaboro l’oralità, la sua materialità sonora. Mi ricordo le voci russe, quelle dei passeggeri del treno, quelle delle provodnitsas e quelle dei giovani soldati. I loro flussi torrenziali, le loro cupe eco. Un canto ferroviario. Immagino l’incontro tra una donna francese e un giovane soldato russo di nome Alëša in riferimento a Dostoevskij, due esseri in fuga che non hanno in comune nessuna lingua e si parlano a gesti. Leggo il testo alla radio. Il titolo è Linee di fuga.Un anno dopo, quel testo diventa un romanzo breve, una storia. Si metamorfizza. Lo rileggo, apporto modifiche, lo allungo, il treno diventa lo spazio-tempo che catalizza l’incontro di due personaggi, si impone come un protagonista del libro. Altre scene mi tornano in mente come lampi – un soldato che corre sulla banchina nella sua uniforme attillata, l’apparizione al finestrino del lago Bajkal, un’alba bianca e silenziosa in una piccola stazione sperduta al centro della Siberia, la lettura dei Racconti di Kolyma di Varlam Salamov. Mi documento sulla coscrizione russa, sulla diedovchina, il nonnismo che gli anziani infliggono alle reclute, studio il martirio del soldato Sytchev. Il libro esce in Francia nel 2012 ed è tradotto in varie lingue, tra cui il russo. Si intitola Tangente vers l’est – vi vedo la linea dritta, il cerchio e il punto di contatto, una geometria dell’incontro e di un gesto d’amore.Dieci anni dopo, questo libro, tradotto in italiano, si intitola Fuga a est. È lo stesso romanzo, ma il mondo è cambiato. C’è la guerra: il 24 febbraio 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina e da allora recluta coscritti a migliaia alla volta, alcuni dei quali cercano di scappare. Sui nostri giornali, sui nostri schermi torna il giovane soldato russo, una figura violenta e disperata che si reimpone senza essere mai scomparsa davvero. Rivedo i soldati della Transiberiana che si pestavano sulla banchina e mi chiedo dove sono, che cosa sono diventati, che cosa ha fatto di loro la guerra stabilita da Putin contro il popolo ucraino, questa guerra arcaica, in risacca, di cui il romanzo rinvia ormai un’eco. —