Tuttolibri, 11 marzo 2023
Calvino, lo scrittore che leggeva gli altri
Tra gli indizi più rivelatori c’era il punto e virgola, segno negletto della nostra punteggiatura, ma capace di diventare nelle sue mani un leggiadro strumento narrativo. Poi l’uso baldanzoso dell’«e» a congiungere filze di parole e concetti. E una caparbia ridondanza di apostrofi. Le «quarte di copertina» di Italo Calvino, in larghissima parte anonime, vengono riconosciute dagli esegeti per questi minuscoli vezzi. E naturalmente per la verve con cui sapeva sintetizzare un romanzo in poche manciate di parole, radiografarlo criticamente, e soprattutto renderlo appetibile al lettore smarrito che, in piedi, nel fragore molesto d’una libreria, doveva scegliere se acquistare o no il volume stretto in mano. Le circa 200 note che Calvino compilò per Einaudi, in oltre 40 anni, sono ora raccolte nel Libro dei risvolti, un Oscar a cura di Luca Baranelli e Chiara Ferrero, introduzione di Tommaso Munari. Magnifica occasione per riscoprire il talento d’un letterato che era innanzitutto un grande lettore («Il massimo tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei», confessava) capace di provare un piacere del testo quasi sensuale e suggerire istruzioni a chiunque fosse tentato di fare altrettanto.
Calvino entrò giovanissimo nella leggendaria Einaudi di Torino. Aveva 24 anni, e s’era forgiato le ossa sull’Unità riportando di set cinematografici o fabbriche occupate. Doveva leggere, ciclostilare bollettini per i librai, redigere schede, pubblicità, prefazioni che dovevano «fare pensare e far capire» i libri all’uomo della strada. E pare di vederlo indaffarato e sapiente girare per via Biancamano e partecipare insieme agli altri grandi dell’intellighenzia torinese (lo scontroso Pavese, Mila, Venturi, Natalia Ginzburg…) al progetto culturale di fare leggere con libertà e gioia l’Italia uscita dalla guerra, dall’autarchia, dagli orrori, dalla povertà. Gli affidarono le «note prefazionali» della Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria, ma anche la sopracoperta dei saggi e i meravigliosi foglietti volanti inseriti nei Coralli, a mo’ di eruditi segnalibri. Oltre ad essere enciclopedico e persuasivo, Calvino lasciava filtrare la sua militanza comunista e il rispetto per le lotte operaie, la passione per il cinema, la solennità della Resistenza (era l’ex partigiano «Santiago»), la particolare sensibilità per le figure femminili, e in generale una curiosità sterminata per ogni genere.
Il suo compito era delibare capolavori nello spazio di una bandella. La biografia dell’autore, ma anche il mondo circostante, l’idea estetica, le forme del testo. In una concisione che non era mai wikipedismo. Sono anonime, le sue righe. A parte rarissime eccezioni, come quando presenta Aria che respiri, dello scrittore operaio per antonomasia, Luigi Davì, «torinese dei sobborghi» che cominciò a pubblicare su giornali e riviste nel 1948, e tra parentesi butta lì un ironicissimo coming out, «è Italo Calvino che si vanta d’averlo scoperto». Dagli anni 60 incomincia invece a firmare. Anche perché, diventato famoso con il Barone rampante e Marcovaldo, è un prezioso sigillo di garanzia. Negli anni 70 Einaudi gli affida la collana Centopagine, dove la direzione editoriale è annunciata sul frontespizio di ogni libro. E così, anche se i risvolti continuano anonimi, Calvino può abbandonarsi all’io, al noi, a confessioni di lettura, come con l’entusiastico endorsement alla Marchesa Colombi, «Mentre spesso nelle ricognizioni tra i minori dell’Ottocento italiano», continua la sua confessione, «le soddisfazioni di lettura devo pagarle con uno sforzo, una resistenza da vincere, qui dalle prime pagine si riconosce una voce di scrittrice che sa farsi ascoltare qualsiasi cosa racconti».
L’ultima scheda della raccolta è dedicata a Del Giudice, che nell’83 pubblicava Lo stadio di Wimbledon. Come al solito rabdomante dello stile, delle tendenze, dell’anima del tempo che si deposita nelle parole scritte, si poneva la domanda, «Cosa ci annuncia questo insolito libro? La ripresa del romanzo d’iniziazione d’un giovane scrittore? O un nuovo approccio alla rappresentazione, al racconto, secondo un nuovo sistema di coordinate? (La «carta di Mercatore» è una delle immagini-chiave.)». Non aveva risposte Calvino. O meglio non le voleva dare, si limitava a suggerire un’idea di letteratura forte, colta, appassionata. E soprattutto leggera, che «non è superficialità, bensì planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».
Ha proposto di tutto, dalla firma dimenticata dell’800, al mega classico, al grande appartato delle lettere nostrane, da Kipling a Viganò, da Conrad a Pavese, da Molière a Ripellino, da Queneau a Bassani, da Robbe-Grillet a Cortázar, da Pushkin a Cassola. Apparteneva a un mondo intellettuale in cui era importante scegliere, schierarsi, dare giudizi. Con l’intransigenza di chi è sempre pronto a cambiare idea, a stupirsi per la novità. Leggere quelle sue schede, che messe così in fila paiono un canone, viene nostalgia per il tempo in cui le case editrici sapevano imporre una linea culturale, coordinate estetiche, companatico all’intelletto. Non come ora che si procede a tentoni, seguendo farlocche idee del pop, dove l’alto e il basso e soprattutto l’inutile, sono equivalenti. Dove chi dovrebbe scegliere cerca di compiacere l’ordalia dei follower. O i mandarini che contano. E fa malcostume dei blurb, delle lodi fantasmagoriche strillate in fascetta, firmate dallo scrittore trendy, influencer, pluripremiato, bestseller. L’importante che siano Ipse Dixit griffati. Anche se la star in questione non ha nulla da dire, perché si vede benissimo che ingarbuglia complimenti con la stessa voglia di quando bisognava scrivere il penso, la domenica pomeriggio, dopo un comportamento malandrino in classe. Che nostalgia per l’intelligenza discreta, anonima di Calvino!—