Robinson, 11 marzo 2023
Il doppio anniversario Sergej Rachmaninov
La prima lezione di pianoforte a 6 anni. La povertà improvvisa della famiglia. Gli studi al Conservatorio di Mosca sotto l’occhio vigile e severo di Nikolaj Sergeevic Zverev. Il desiderio di comporre. La depressione. Tre anni di buio. La luce che torna dopo le cure (anche con l’uso dell’ipnosi) di un medico che amava la musica. Poi il successo, un enorme successo. I viaggi. La fuga. L’ammirazione per Cajkovskij. Gli attacchi della critica del regime sovietico. La villa in Svizzera, quella a Beverly Hills – a pochissima distanza da quella di Igor Stravinskij – con due pianoforti a coda per duettare con l’amico Vladimir Horowitz. E poi ancora, la perenne nostalgia per la sua Russia e il desiderio mai placato di farvi ritorno. Ma anche quando nel 1933 gli Stati Uniti riconobbero l’Urss, lui, al culmine della celebrità, dichiarò pubblicamente che si poteva riconoscere solo e soltanto con la Russia del passato, quella prima della Rivoluzione d’ottobre dalla quale era fuggito. Con il risultato che il governo staliniano boicottò la sua musica.
Sergej Rachmaninov (Velikij Novgorod, Russia, 1° aprile 1873-Beverly Hills, Usa, 28 marzo 1943), compositore, pianista e direttore d’orchestra russo naturalizzato americano, del quale ricorre il doppio anniversario della nascita (150 anni) e della scomparsa (80 anni) viene ricordato soprattutto come autore «dalla gestualità romantica – come ha scritto lo storico della musica Gianfranco Vinay – e dalla vena melodica priva di inibizioni». Il riferimento è naturalmente ai suoi celebri quattro concerti per pianoforte e orchestra (composti nel 1891, 1901, 1909 e 1927), dei quali il Secondo in do minore, opus 18 (che Rachmaninov dedicò al medico che lo salvò dalla depressione più profonda, Nikolaj Dahl), è quello più popolare e maggiormente eseguito, oltre che quello che gli ha dato fama mondiale. Il Terzo in re minore opus 30 è invece – in assoluto, insieme al Secondo di Brahms e al Secondo di Prokof’ev – uno dei più impegnativi concerti dell’intero repertorio pianistico (consigliamo vivamente l’ascolto dell’interpretazione di Martha Argerich con la Radio-Symphonie-Orchester di Berlino diretta da Riccardo Chailly); è la pagina che ha superato la cerchia degli appassionati di musica classica diventando popolare con il nome di Rach 3 dopo il successo internazionale del film di Scott Hicks Shine (1996), ispirato alla vita del pianista David Helfgott, in cui questo concerto diventa il simbolo di uno sforzo trascendentale, di nervi e di fisico, necessario per arrivare a dominare lo strumento.
«Da un punto di vista pianistico, paragono Rachmaninov all’Himalaya», racconta a «la Lettura» Riccardo Chailly, che ha appena portato ad Amsterdam un programma del compositore per la Royal Concertgebouw Orchestra e il pianista Mao Fujita, con l’esecuzione della Prima sinfonia e del Secondo concerto per pianoforte e orchestra. Per il quale – aggiunge – «serve una capacità tecnica mostruosa che Rachmaninov possedeva come nessun altro. Se lo si ascolta al pianoforte con la Philadelphia Orchestra diretta da Leopold Stokowski è impressionante l’abilità e la naturalezza con cui suona». Per quanto riguarda la scuola pianistica più recente il maestro milanese parla, oltre che di Fujita, di Lang Lang, di Arkadij Volodos’... «Tecnicamente preparatissimi, hanno trovato una loro via. Sono segnali di un grande sviluppo interpretativo per la musica di Rachmaninov».
In diversi libri di storia della musica, anche autorevoli, la figura di questo grande compositore sembra però non ottenere un riconoscimento pari a quello di altri giganti della musica. Prendiamo l’esempio della Prima sinfonia, che l’autore compone in 8 mesi, all’età di 22 ani, nel 1895. Fu eseguita in prima assoluta a San Pietroburgo, due anni dopo, il 15 marzo 1897. Sul podio il compositore Alexander Glazunov, che la dirige malissimo (l’ipotesi è che fosse ubriaco). Ne esce un’esecuzione pessima. Che portò Rachmaninov a tre anni di depressione. «Un genio di 22 anni scrive una sinfonia formidabile – riflette Chailly – che viene rovinata e bistrattata per una direzione disastrosa di Glazunov... Fu la ragione più grave di una depressione che Rachmaninov si portò dietro tutta la vita».
Quello del compositore è «un mondo sonoro riconoscibile dopo poche battute, un universo armonico inquieto, fin dalla Prima sinfonia, che alterna sorprendenti melodie che si scolpiscono nella memoria. Già qui ci sono tutti gli elementi che ritroveremo fino all’ultima composizione. L’ossessione del Dies Irae, quest’idea dell’ombra della morte che si ritrova già nel tema dell’attacco della Prima, sarà un elemento costante di tutte le sue composizioni sinfoniche. Oltretutto c’è questo senso di ansia nell’armonia che non trova mai un approdo alla serenità. E quando c’è un momento di apparente serenità, arriva, immediatamente dopo, l’ombra a oscurare quell’illusione di luce. Il finale del quarto movimento sembra anticipare addirittura gli ostinati ritmici e ripetitivi con i timpani e l’unisono degli archi di Šostakovic. È un mondo tormentatissimo, quello di Rachmaninov. Chi lo guarda con un sorriso non ha studiato a sufficienza il senso della sua grande musica».
Incomprensione da parte dei suoi contemporanei, nonostante un successo internazionale. E qualche cattiveria. Stravinskij per esempio (lo cita Mario Bortolotto in un suo saggio) diceva che «le sue prime composizioni erano acquerelli (...), poi a venticinque anni si diede agli oli e diventò un vecchissimo compositore». «Rachmaninov – conclude Chailly – condivide il dolore che hanno sofferto in parte Puccini e in parte Cajkovskij. Il motivo è anche che hanno sofferto di mediocri interpreti». Cosa ascoltare? «La Veglia per tutta la notte, op. 37 per coro a cappella. Un miracolo di bellezza. E la sinfonia corale Le campane, op. 35».