Robinson, 11 marzo 2023
Passeggando in bicicletta
Ogni volta che sto sulla bici arriva inevitabile un momento che non è subito né alla fine, ma quando le gambe frullano da un po’ e prendono il ritmo, l’aria addosso ha il calore giusto e il mondo capisce a che velocità è meglio scorrerti incontro. A quel punto, il pedale in armonia cosmica col respiro, col cuore, col girare della Terra su se stessa e intorno al Sole, si schiude in me la solita, irresistibile, inestinguibile domanda:
Com’è possibile che ci abbiamo messo tanto a inventare la bicicletta?
Non io, che non sono portato, ma le molte persone col dono della pratica e della meccanica, abili a progettare e costruire, a mettere insieme le cose per farle diventare qualcos’altro che si muove, spinge, funziona.
Di questa gente ce n’è parecchia, ovunque e da sempre, e già nell’antichità ha saputo inventare macchine complesse e sbalorditive.
La bicicletta invece è arrivata nella storia dell’uomo clamorosamente tardi.
Eppure – non posso evitare di pensarlo ogni volta che pedalo e smetto di guardare il panorama abbassando gli occhi a dove sto seduto —, la bicicletta è solo due ruote una dietro l’altra. Senza offesa, anzi questa semplicità essenziale è una delle sue grandi qualità, ma insomma la bici è questo: due ruote una dietro l’altra, che girano e vanno.
E per metterle in questo modo, ci sono voluti più di cinque millenni.
Un aspro dibattito divide ancora gli studiosi sulla data e il luogo a cui far risalire l’invenzione della ruota, ma grosso modo ci si può accordare sulla solita, sublime Mesopotamia, la terra dove tutto è nato, intorno al 3500 avanti Cristo.
Da quel tempo l’uomo aveva la ruota, ne aveva parecchie a disposizione, e le usava spigliato per produrre, macinare, far correre i carri che già i sumeri costruivano magnifici. Ma per piazzarne due una dietro l’altra, con un manubrio davanti, ci ha messo cinquemila e trecento anni.
E se questo non vi sconcerta, siete fatti di pietra.
Come la pietra da cui sono partiti gli uomini nella preistoria, poi legno, rame, bronzo e così via, sempre più veloci e maestosi su carri e carrozze, bighe e quadrighe, tra palazzi e templi imponenti, piramidi, acropoli, ziggurat e cattedrali gotiche, tra città meravigliose e su ponti che in volo attraversavano i fiumi, lungo strade infinite a collegare i continenti.
Tutto questo c’era già e molto altro ancora, da tanto, tantissimo tempo. Invenzioni preziose, sofisticate, complesse. Pure la birra, che a mandarne giù un sorso fresco nei pomeriggi d’estate non si direbbe, ma produrla richiede un procedimento lungo e complicato. Eppure la birra piaceva già parecchio agli antichi egizi, e anche lei è nata in Mesopotamia, sempre intorno a cinque millenni fa, quando nella terra tra i due fiumi hanno inventato la birra e la ruota insieme, e quindi il problema di chi guidava ubriaco.
Innovazioni che hanno plasmato il mondo e deciso il cammino dell’umanità, tra esplorazioni e guerre, cavalli di Troia e torri di Babele, polvere da sparo e fuochi d’artificio, macchine da costruzione, da assedio e da tortura. I gladiatori apparivano nell’arena del Colosseo salendo da sottoterra, con un ingegnoso sistema di argani e montacarichi. Pure la guerra batteriologica infuriava diversi secoli prima che scoprissimo l’esistenza dei batteri.
La bicicletta no.
A lungo si è pensato che ci fosse arrivato almeno Leonardo da Vinci: il sublime genio ne aveva disegnata una sul Codice Atlantico, il celebre schizzo di una bicicletta con tanto di pedali, manubrio e sellino quasi uguali a oggi.
Non c’era da sorprendersi, Leonardo in fondo aveva progettato macchine volanti simili a elicotteri, carri che falciavano il grano da soli, mitragliatrici, gru, un tamburo automatico antenato della drum machine e molto altro ancora. Ma in realtà, la bici no: ormai è certo che quel disegno è un falso, aggiunto da qualcuno con la matita di grafite che al tempo di Leonardo non esisteva.
Un falsario, un matto, uno che aveva voglia di fare uno scherzo.
Secondo me, un giustiziere.
Uno come me, incredulo che tra tante mirabili intuizioni mancasse la bicicletta, allora ha provato a correggere la traiettoria sbilenca del cammino umano.
In ogni caso, la prima vera bicicletta arriva solo all’inizio dell’Ottocento, che in questo lungo cammino è praticamente ieri mattina. Quando il barone tedesco Karl Drais inventa il mezzo che dal suo nome si chiamerà draisina.
È il 1816. Cinque millenni dopo la ruota.
A stimolare il barone, come spesso succede, pare sia stata la necessità: l’orrido 1816, «l’anno senza estate», quando le ceneri sputate dal vulcano Tambora in Indonesia rubarono la luce e il calore del sole, spargendo miseria a carestia e uccidendo buoi e cavalli, fino a rendere urgente un’alternativa al trasporto animale.
Se davvero è andata così, si tratta della seconda meraviglia che dobbiamo a quell’anno infausto, in cui il freddo inusuale spinse un gruppetto di giovani inglesi a trascorrere le loro vacanze chiusi in un castello svizzero, e per noia sfidarsi a chi avesse scritto la storia più terrorizzante. Da quella gita infreddolita è nato Il vampiro di Polidori, e Mary Shelley si è inventata Frankenstein.
In effetti anche la bicicletta è così, una specie di mostro di Frankenstein, composta di tanti pezzi ognuno semplice e diverso, montati insieme a prendere una vita unica e nuova, possente e prodigiosa.
Eppure quella del barone Drais, che arriva così tardi nella storia dell’uomo, è una bici per modo di dire: puoi salire in sella e stringere il manubrio, ma per viaggiare devi spingerti coi piedi a terra. Bisognerà aspettare altri vent’anni perché qualcuno ci aggiunga i pedali.
Si arriva così al 1839, e solo una decina d’anni dopo, a dieci minuti da casa mia, Barsanti e Matteucci inventano il motore a scoppio. Da lì le moto, le auto, e tutto quello che in teoria avrebbe dovuto chiudere per sempre l’avventura appena cominciata della bici.
E io non me lo spiego, anzi proprio non lo accetto.
Infatti mentre pedalo cerco di scordarlo, lasciando questo come qualsiasi pensiero alla brezza che mi incontra, mi carezza e scorre via.
Però non funziona così. Quando vai in bici i pensieri non spariscono, succede qualcosa di più magico e prezioso: i pensieri si trasformano, diventano larghi e lunghi, ramificati, fluidi, liberi, incontrollabili.
E la dimostrazione più vibrante di questo è il libro che state per leggere.
Certo, decenni di sfolgoranti creazioni musicali e visive hanno già mostrato quanto David Byrne ami perlustrare i sentieri meno battuti dell’immaginazione, in cerca di luoghi altri e diversi, ma nei Diari della bicicletta si aggiungono le imprevedibili prospettive dell’osservare il mondo dalla sella di una bici.
Ovunque vada, Mr. Byrne la porta con sé. Dall’estremo Oriente alle periferie suburbane degli Usa, da Londra al Sud America, dalle coste dell’Africa alle ordinate aree verdi intorno a Berlino, pedalare rende i suoi viaggi qualcosa di spiazzato e spiazzante, raccogliendo mille panorami intorno a un punto di vista unico e insieme generale, che rischia di essere quello dell’umanità.
A piedi infatti ti sposti poco, in auto percorri grandi distanze ma le copri di fretta e rumore. La bici ti permette lo spostamento giusto e la giusta velocità per conoscere un luogo. Per entrarci, accogliere e raccogliere, incontrare le parti e intuire l’insieme.
Grazie a quello che trovi intorno, e a quel che ti succede dentro. Forse perché la nostra comprensione funziona come l’acqua sul fuoco: se la guardi, non bolle mai. E così noi, se stiamo concentrati su quel che vogliamo capire, ci riempiamo di precauzioni, dettagli e accortezze che ingorgano l’angusto passaggio della nostra attenzione. I pensieri migliori, le idee folgoranti, le grandi illuminazioni, capitano quando vogliono loro, mentre noi facciamo altro ed è distratta la parte più rigida e burocratica di noi.
Ecco perché pensieri ed emozioni scorrono più fluidi, se intanto le gambe frullano sui pedali e la brezza si porta via le piccolezze.
In bici rischiamo di vedere, di prendere e comprendere i luoghi e il mondo intero per quel che sono: qualcosa che ci è intorno, e insieme dentro:
Per capire ciò che pensiamo e giudichiamo importante, così come il nostro modo di strutturare tali pensieri e giudizi. È tutto lì, in bella vista, in piena luce; non c’è bisogno di Tac né di antropologi culturali per mostrare ciò che avviene nella mente dell’uomo; il suo intimo funzionamento si palesa in tre dimensioni, tutt’intorno a noi. A volte, leggere i nostri valori e le nostre speranze è di una facilità imbarazzante. Sono proprio lì – nelle vetrine, nei musei, nei templi, nei negozi e nei palazzi di uffici, così come nel modo in cui tali strutture sono collegate o, a volte, non lo sono. Nel loro particolare linguaggio visivo ci dicono: «Questo è quello che crediamo sia importante, è così che viviamo, ed è così che ci divertiamo». Andare in bicicletta in mezzo a tutto questo è come esplorare le vie neurali collettive di una sorta di immensa mente globale.
Anche questo sono i Diari della bicicletta, un tentativo di mappare il mondo e noi stessi grazie al movimento liberatorio della bici, il mezzo più comodo, intimo e arioso, che ci permette di vagare e insieme ci porta a divagare. Senza incastrarci fra i meccanismi del motore, senza rimpiazzare la nostra fatica con lo sbuffo insano del carburante.
Si dice che la bicicletta non abbia bisogno di motore e benzina, ma non è vero: il suo motore e la sua benzina siamo noi. Le nostre gambe, il cuore, la nostra forza, la nostra disposizione a spenderla. La bici ci porta, e insieme ci prende, ci usa e consuma. Come i piedi, le gambe, come ogni parte del nostro corpo, ci serve ma si serve di noi. L’auto, la moto, il monopattino elettrico, sono altro e altrove, in un luogo che non siamo più noi. La bici è il confine ultimo nostro.
Non è un caso che, quando un pensiero ci soddisfa e sembra funzionare in pieno, ce lo immaginiamo come un cerchio che si chiude. E dei cerchi la bicicletta è il trionfo: un cerchio è il colpo di pedale, che fa girare la catena sui cerchi della corona e del pignone, trasmettendo lo stesso movimento ai due cerchi che girano sulla strada, donandoci quel fruscio inconfondibile che è l’unico suono preferibile al silenzio.
Sulla bici tutto gira, e giriamo noi. I nostri pensieri, le nostre sensazioni, vorticano e si mischiano, vanno e tornano. Ossigenati, ampliati, più ricchi e strani, come di colpo ci appare la vita intorno.
Sono tentato di credere che sia proprio questa la spiegazione di come mai ci abbiamo messo tanto, a inventare la bicicletta. E pure di un altro mistero ancor più incomprensibile: perché, nonostante la bici sia la scelta perfetta e giusta oggi più che mai, libera e sana, senza intasare né sporcare mentre cura il corpo, l’anima e lo spirito, ancora ci ostiniamo a usarla così poco.
La risposta, forse, sta in queste pagine, nella loro capacità esaltante e dolorosa di salire altissime e insieme calarsi sciagurate nel profondo. Schizzando dal senso dell’esistenza ai tavolini di plastica di un karaoke a Manila, dai dipinti propagandistici dei dittatori alle tristi suonerie dei telefoni che tentano di annunciare al mondo chi siamo, schivando le buche di zone industriali che non si industriano più, fino ai centri delle città che con le loro forme ci mostrano esattamente quel che siamo e vogliamo: in questo viaggio libero e mistico rischiamo attimi di comprensione tanto, troppo vera. Spiazzante, devastante.
Allora preferiamo restare coi piedi piantati per terra o col culo sul sedile riscaldato di un’auto, col navigatore a portarci dove vuole, comodi, ottusi, schiavi, occhi bassi e mente stretta, dritta, rigida, ostinata.
Perché appunto, muovendoci su una bici «è tutto lì, in bella vista, in piena luce». Troppa luce a mostrarci quel che non vogliamo vedere, a offrirci occasioni che ci affatica o ci spaventa cogliere. Allora scegliamo di vivere come le dame delle favole scure, che per non vedersi vecchie tengono le candele al minimo e coprono ogni specchio della magione, mentre mura e tetto scricchiolano nella muffa e nell’odor di chiuso.
O forse no, forse è solo la mia testa che divaga troppo, le mie gambe che troppo pedalano, e i miei pensieri deragliano.
Ma io li lascio andare, mi lascio pedalare. Il nostro viaggio nel mondo è un viaggio in bici, in equilibrio precario a una velocità che non ci permette di fermarci né di fuggire via. Ma di muoverci, di esserci, e senza un percorso preciso andare.
Come ogni pensiero interessante, ogni canzone che meriti di essere ascoltata, ogni libro che meriti di essere letto, ogni vita che meriti di essere vissuta. Salite e discese, curve, tornanti e rari tratti dritti, spiazzi e foreste a sorprenderci e sperderci, e lì ritrovarci.
Pedalando, vagando e divagando, vedendo, vivendo davvero.