Robinson, 11 marzo 2023
Intervista a Mario Vargas Llosa
«Mi preoccupa la stupidità umana che, lasciandosi sfuggire meravigliose opportunità di condurre una battaglia vittoriosa contro la fame, la povertà o la discriminazione a favore della convivenza, della pace e della cultura, continua a praticare il fanatismo, l’intolleranza e il razzismo e tutte le altre fonti di infelicità»: Mario Vargas Llosa, Nobel per la Letteratura nel 2010, è un fiume in piena. I suoi 87 anni – li compirà il 28 marzo – non sembrano sminuire l’entusiasmo per la cultura e la politica. Da poco l’editore Mimesis ha pubblicato la traduzione italiana delle interviste che il celebre scrittore peruviano ha concesso, in oltre trent’anni, al giornalista spagnolo Juan Cruz (Davanti allo specchio. Conversazioni con Juan Cruz Ruiz). In collegamento da Madrid, Vargas Llosa risponde alle domande de «la Lettura».
Lei ha scritto che la letteratura possiede una forza morale in grado di contribuire a migliorare la società...
«È così. Il romanzo è il genere che agisce in modo più immediato sul pubblico. Certo: ci sono anche poesia e teatro. Ma credo che il romanzo sia più adatto ed efficace nel mostrare alcuni difetti della società. Per esempio, le grandi disuguaglianze che affliggono il mondo: economiche, culturali o sociali. Ho l’impressione che un buon romanzo possa essere più incisivo per agitare le coscienze».
Come sarebbe il mondo senza letteratura?
«Terribile, privo di desideri e di ideali. Ecco perché è pericolosa la censura: perché, di fatto, uccide la letteratura, impoverendo l’arte e la società. Nei Paesi autoritari i divieti neutralizzano lo sforzo dei romanzi. Per esempio, in Russia o in Cina la letteratura non può trattare i temi più spinosi che affliggono la società».
Dopo avere perduto nel 1990 le presidenziali in Perù, ha dichiarato: «I peruviani mi hanno restituito alla letteratura». Cos’ha imparato da quell’avventura elettorale?
«È stata un’esperienza molto intensa. Avevo già lottato nel passato contro il progetto del presidente Alan García di nazionalizzare le banche. Questo disegno politico, proprio in Perù, avrebbe dato al governo – che non ha scrupoli nella gestione della cosa pubblica – un’autorità straordinaria per usare i media in modo arbitrario. Questo è stato il motivo della mia candidatura. Vorrei essere sincero: non ho accettato la sfida elettorale con molta convinzione. In fondo, l’idea di diventare presidente non mi interessava. Ma poi mi sono rassegnato. È per questo che la sconfitta non ha avuto un grande peso. Anzi, sono stato piuttosto grato agli elettori per non avermi eletto: la mia passione è la letteratura, non la politica».
Dalla caduta del Muro di Berlino il neoliberismo domina incontrastato: questo pensiero economico contribuisce a superare le disuguaglianze o può renderle ancora più drammatiche?
«Io sono un liberale. Non sono affatto favorevole al socialismo. Penso che il socialismo porti solo povertà e abbia limitato il futuro dell’America Latina. Penso che i Paesi debbano attrarre capitali, soprattutto se sono necessari per lo sviluppo. La politica dell’America Latina oggi è catastrofica. Allontanare gli investimenti significa correre verso il suicidio. Il caso del Venezuela è eloquente. C’è stato un momento in cui il Venezuela, per il petrolio, veniva identificato con l’Arabia Saudita: apriva le frontiere a tutti i latinoamericani e agli europei. Dopo cos’è accaduto? Il suo drammatico impoverimento ha scatenato un enorme flusso migratorio: un milione di venezuelani in fuga verso il Perù e quasi due milioni verso la Colombia. Questo è un segno evidente della deplorevole miseria dell’America Latina, frutto delle riforme della sinistra e della cosiddetta rivoluzione socialista».
Lei ha elogiato grandi pensatori liberali come Isaiah Berlin e Karl Popper. Come considererebbero adesso questi autori l’operato di tante multinazionali che stanno distruggendo il nostro pianeta con l’obiettivo di fare molti soldi nel minore tempo possibile? E cosa c’entra il neoliberismo di oggi con le idee di Berlin e Popper?
«All’America Latina servono capitali, soprattutto capitali da investire. Perché c’è una ricchezza che non si alimenta da sola, ma ha bisogno di massicce iniezioni di denaro. Ogni Paese deve essere in grado di stipulare accordi, per il proprio sviluppo, con le grandi imprese che operano nel mondo. Non vorrei essere frainteso: aprire agli investimenti di denaro non significa rinunciare a difendere i propri interessi nazionali, ma credo sia necessario per costruire un futuro fondato su una nuova economia».
Ma questa «nuova economia» potrebbe risolvere veramente i problemi della povertà e delle disuguaglianze in America Latina? In Europa, negli ultimi decenni, i lavoratori hanno perso il diritto di avere diritti, mentre i governi, a parole, parlano di ecologia ma poi, nei fatti, non adottano provvedimenti radicali per difendere l’ambiente.
«Certo, queste contraddizioni costituiscono un problema. Ma – diciamo – quello che serve è un vero patriottismo: ogni Paese deve saper difendere i suoi interessi. Questo obiettivo non si raggiunge sbarrando la strada ai capitali e agli investimenti».
Lei ha sempre rivendicato le sue origini peruviane. Ma, nello stesso tempo, ha sempre dichiarato di sentirsi cittadino del mondo. Com’è riuscito a conciliare questi due aspetti?
«Sono e mi sento peruviano. Faccio parte del Perù e i problemi della mia terra mi riguardano. Allo stesso tempo, penso che il Perù sia una parte del mondo e sarebbe stupido separare il Perù dal resto del mondo. Ciò che accade nel mondo ci riguarda direttamente. E, per fare un esempio, l’aggressione della Russia non può lasciarci indifferenti».
Qual è il ricordo più importante della generazione del boom?
«La generazione del boom ha permesso di fare scoprire l’America Latina. Per i peruviani, che vivevano molto isolati, leggere improvvisamente scrittori cileni, colombiani, messicani ha prodotto qualcosa di splendido, di meraviglioso. Una fase ricca di stimoli per gli autori e per i lettori. La letteratura ci permetteva di superare le barriere nazionali e di integrarci con le culture latinoamericane. Ora però l’America Latina sta un po’ regredendo rispetto alla vivacità intellettuale e letteraria che aveva conosciuto nella straordinaria stagione degli anni Cinquanta e Sessanta. È stato senza dubbio un momento molto speciale, ma ormai passato. Stiamo vivendo piuttosto un provincialismo che è in gran parte figlio delle politiche culturali della sinistra, con la sua ostinazione a considerare i Paesi in modo isolato e non l’intero continente. Ci sarebbe molto più sviluppo se i Paesi potessero collegarsi tra loro e sostenersi a vicenda».
Quali sono gli autori latinoamericani che le sembrano più interessanti?
«Devo dire che tra i tanti scrittori latinoamericani – una ricchezza letteraria e una diversità veramente notevoli – oggi spetta soprattutto alle donne un ruolo di primo piano. È un dato di fatto molto interessante: negli ultimi anni sono emerse scrittrici che hanno saputo rappresentare con efficacia i diversi volti dell’America Latina. Penso, in particolare, a due scrittrici argentine: Samanta Schweblin e Claudia Piñeiro. Nel passato abbiamo avuto, grosso modo, due direzioni: una rappresentata da Jorge Luis Borges e l’altra da Gabriel García Márquez. Due autori molto diversi tra loro: il primo ha scritto racconti fantastici legati a un orizzonte più universale, mentre il secondo ha circoscritto la sua opera a una dimensione più locale».
Non crede che le vicende di Macondo raccontate in «Cent’anni di solitudine» rappresentino un «locale» che, magistralmente, finisce per esprimere anche l’«universale»?
«Ma certo, la letteratura è sempre universale, perché l’universalità o il provincialismo sono fondamentalmente espressi dalle tecniche del romanzo. Il romanzo apre sempre le frontiere. E Cent’anni di solitudine, anche se ambientato in una periferia della Colombia, avrebbe potuto raccontare, nello stesso tempo, il Perù o il Messico o altre realtà più distanti. Questo però non è il caso di Borges. Non è il caso di uno scrittore che già appartiene a un’élite molto raffinata, colta, che ha letto tanti libri in inglese, in francese, in tedesco. Questo ha prodotto opere molto raffinate. Una letteratura che ha una forza speciale, quasi fuori dalla portata dei comuni mortali».
Oggi si pensa che computer e piattaforme digitali siano alla base della scuola moderna. Però abbiamo dimenticato che solo i bravi insegnanti possono cambiare la vita degli studenti...
«Sono perfettamente d’accordo. Ricordo con tenerezza il mio professore di Storia all’università. Ho avuto il privilegio di lavorare con lui dal secondo anno al quinto. Un insegnante che rappresentava per me il “vecchio maestro”. Gli piaceva essere circondato dagli studenti e, con grande passione, si impegnava a farci conoscere la storia del Perù. Si chiamava Raúl Porras Barrenechea, nato nel 1897 e morto nel 1960, un uomo straordinariamente colto. Ricordo che faceva lezione anche dopo il corso e ci invitava a casa sua per continuare a trasmetterci il suo sapere e il suo interesse per la ricerca».
Le amicizie segnano sempre la vita degli esseri umani. Quali amici hanno contato nella sua vita?
«Ho intrecciato relazioni di amicizia con tante persone. Gli amici impegnati nella politica, per esempio, mi hanno aiutato a scoprire i problemi, quelli veri e profondi, del Perù. Attraverso di loro ho capito che era necessario intervenire per aiutare il mio Paese a uscire dal provincialismo e aprirsi allo sviluppo economico e sociale. Ma per cambiare il destino dell’America Latina c’è bisogno di persone oneste, in grado di respingere la corruzione e difendere autenticamente gli interessi della nazione. Purtroppo nei nostri Paesi la corruzione è tremenda e molto diffusa. Penso al Messico o all’Argentina...».
Ma la corruzione valica i confini dell’America Latina. Prospera anche nelle ricche società occidentali.
«Vero. Ci sono Paesi, però, in cui la corruzione è molto meno diffusa: penso, per esempio, alla Gran Bretagna o ad alcune nazioni del Nord Europa. In America Latina, invece, la sua presenza è ormai endemica, come un’epidemia».
Il conferimento del premio Nobel ha cambiato la sua vita e il suo modo di scrivere?
«Ha rivoluzionato la mia vita almeno per un anno! Il Nobel prevede un’agenda piena di impegni: conferenze nelle università, interventi nelle fiere del libro, discorsi e incontri... Senza contare le interviste. Certo: tutto ciò implica una grande notorietà e una diffusione ancora più massiccia delle proprie opere. Al di là della fatica e dello sforzo, devo ammettere però che è stato per me interessantissimo: ho conosciuto nuovi Paesi, tantissimi nuovi lettori e molte realtà culturali che non avrei mai raggiunto. Un anno sotto controllo, ma ne è valsa la pena».
Il 9 febbraio ha festeggiato in Francia il suo ingresso tra gli immortali dell’Académie: cosa significa la Francia?
«La Francia è stata molto importante nella mia formazione e, soprattutto, nella creazione dei miei modelli letterari. Il Perù era un mondo piccolo; imparare il francese da giovane mi ha permesso di leggere con grande entusiasmo autori straordinari. Grazie a loro ho potuto arricchire i miei orizzonti intellettuali. Ho ammirato Zola, ma Flaubert è stato fondamentale. A lui devo tantissimo: Madame Bovary e L’educazione sentimentale, con altre opere minori, mi hanno accompagnato nella mia vita di scrittore, facendomi capire che il genio, se non è innato, si può costruire con la determinazione e la fatica. Durante l’esistenzialismo, invece, sono stato attratto da Jean-Paul Sartre. Ma poi mi sono avvicinato ad Albert Camus che, rispetto alla rigidità di Sartre, riusciva a esprimere una sensibilità più aperta alle contraddizioni umane. I veri maestri di uno scrittore sono i libri che ha letto».
Quali sono gli autori italiani che hanno attirato la sua attenzione?
«Ho sempre ammirato Claudio Magris, scrittore straordinario. Da molti anni mi batto per fargli concedere il Nobel. Finora la giuria non mi ha ascoltato, ma continuerò la battaglia per sostenerlo».
Cosa può dire ai giovani per incoraggiarli a leggere i classici?
«Shakespeare e Molière e Dante e Cervantes sono autori di opere vive. Senza i classici è difficile immaginare una classe dirigente in grado di innovare e affrontare i problemi dell’umanità».