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 2023  marzo 11 Sabato calendario

Intervista a Monica Bonvicini

Nata a Venezia, Monica Bonvicini vive e lavora da decenni a Berlino. La Neue Nationalgalerie le sta dedicando (fino al 30 aprile) una magnifica personale. All’ingresso del suo studio affacciato su un canale siamo stati accolti da un campanello che suona quattro versioni dell’ Internazionale. Poco dopo, nel loft illuminato da un sole pallido si è affacciata Bonvicini, lo sguardo ironico accentuato da un paio di giganteschi occhiali da vista. E nella nostra lunga conversazione, l’artista demolisce un paio di miti immarcescibili. A partire da quello della ricostruzione felice della Berlino post cadutadel Muro.
Bonvicini, la sua mostra sembra sfidare l’architettura rigorosa che la ospita, la Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe. A partire dall’opera che accoglie i visitatori, “I do You” (“Mi ti faccio”). E sembra evidenziare la contraddizione del padre del modernismo che sosteneva di voler annullare gli spazi tra pubblico e privato: l’arte della Neue è tutta nei sotterranei.
Da fuori si vede solo la sua architettura.
«Il titoloI doYousi può interpretare in manierasessualeo anche comeuna domanda:“chi formachi?”. Ancheun po’ “io ti faccio” in un senso più aggressivo. Per la ristrutturazione di Miesvan der Rohe sono stati spesi 140 milioni di euro e sei anni di lavori.
Hannocreato uno spazio quasisacro doveautorizzano pochemostre – ancheper mancanza difondi edi personale–ed è unpeccato perchéè uno spazio bellissimo. Spero che la mia mostralo dimostri che quello èuno spazio perfetto per ospitare arte contemporanea,enon un tempio intoccabile del modernismo. Quello chediceva lei è vero:Mies van der Rohe voleva distruggere la differenza tra pubblico e privato, il dentro e fuori, il museo e il pubblico con la facciata di vetro. Ma non c’è riuscito. Siamo in cima a una collina,come in un tempio, e intorno non c’è niente, nessun rapporto con gli edifici, con la PotsdamerStrasse. Perme non funziona. Al contrario: questa trasparenza è diventata ancora più trasparente con la ristrutturazione, col tetto che sembra quasi volare, e l’ha trasformata ancoradi più inuna vetrina. Alimenta solo l’idea del capitalismo che ti costringe da fuori a guardarequello che nonpuoi comprare».
Tra le opere esposte c’è anche quella che mostra i ruderi della Nationalgalerie. Perché?
«Èunlavorochehosemprevoluto rimanesseaBerlinoperchéèun monumentoalfallimentodella ricostruzionedellacittà.Nel2005, quandohovintoilpremiodella Nationalgalerie,hopropostoche rimanessequi.Mailpresidentemidisse: “AbbiamounacosasimilediBeuys”.Che nonc’entravaniente,ovviamente.
Insomma,iomiricordoquandoc’erail MuroePotsdamerPlatzeravuota.Ora c’èSonyeHyattetuttelecosechel’ovest haportatoaest,questisimbolidi annessione.Diquegliannièanchelamia operaverbrauchtenostalgie,unadelle pocheconuntitolointedesco:“nostalgia usata”.Perchégiànel1992c’eranoibus deituristichevenivanoavederei quartieri“pericolosi”diBerlino(ride).
PeròilbellodiBerlinoècheancoraoggiètuttoancorainmovimento.Certo,dal puntodivistaurbanisticoèstatoun disastroesièimborghesitatantissimo, maèancoraunlaboratorio.Quandoio venivoleprimevolteperchiavevaisoldi nonc’eraniente».
Però a Potsdamer Platz c’è la
Filarmonica che è molto bella.
«E basta! Per il resto nonc’è nulla di interessante.Il Sony e altri edifici sono ridottiaingressidi shoppingmall. Non hanno rischiato niente.Anchel’edificio diRichardRogersnonsivedequasi.E quandoentri nell’edificiodi RenzoPianoil mall è come tutti gli altri. Il problemaècheaBerlinoc’èun conformismoamministrativo incredibile:anchegliappartamenti dietroalla nuovastazione centrale sonobrutti,tirati su male.Cosa hanno costruitodinuovo aBerlinonegli ultimiventicinqueanni?Niente,mipare».
L’arte ha battuto l’architettura, insomma. È anche questo il senso di “I do You”?
«Nonso. In realtà molti artisti sono dovuti andare via per gli affitti alle stelle, frutto della speculazione immobiliare.Io prima avevo lo studio a Kunstwerkevicino aLinienstrasse, al centro.L’intera stradaè stata comprata dairlandesi chehanno cacciato tutti per aumentare gli affitti: c’era gente cheabitava lì dacentoanni. Dovesono andatia vivere queste famiglieche stavanolì a duecentoeuroalmese?
Nellaperiferia estrema.Dopo la caduta delMuroBerlinoè stata svenduta».
A proposito. Sono arrivati almeno i compratori di arte? Berlino è sempre stata piena di artisti ma poco di collezionisti e appassionati.
«Sì,èuntemaimportanteperchéèvero chequinonc’èlatradizionechec’èa ColoniaoaDüsseldorf,ilcollezionismo chec’èinaltre cittàtedesche. Perciòi museisonoimportanti,perché educanoall’arteeallapassioneper l’arte.Eccoperché IdoYou : èancheun appelloallacittà.Peraltromettere quell’operasullafacciataè stata un’impresa».
Perché?
«Perché la Soprintendenza non ci ha dato il permesso. Diceva che distruggeva la facciata di questa grande icona del modernismo.
Assurdo. E noi abbiamo tirato su I do Youlo stesso, nel buio, con meno sette gradi, un freddo polare. Ma questo dettaglio ti dimostra quanto è conservatrice la città. Mi ha ricordato una frase meravigliosa del film diMargarethe von Trotta su Ingeborg Bachmann: “Gedicht ist Verdacht”, la poesia è sospetto. Per I do You ho usato volutamente il materiale che si usa per le facciate degli edifici. Dunque è la facciata che potrebbe essere, volutamente frammentaria, che non si legge neanche bene perché rimanda ad altro, a qualcosa che resta fuori.
Sull’edificio di Mies van der Rohe si è sviluppata una tale adorazione da rasentare il feticismo e il voyeurismo e io ho voluto spezzare con un po’ di umanità. Il feticismo dei materiali di Mies van der Rohe è noto, la straordinarietà ingegneristica diquest’opera è indubbia ma il risultato qual è? Che chi entra si perde. Da nessuna parte c’è scritto dove sono le biglietterie, per dire. Entri e ti perdi nel volume, nella grandezza».
Lei è la sesta artista donna ad avere avuto una mostra personale qui.
«Sì, ed è uno scandalo. Ma come in altri ambiti, per esempio la politica.
La Germania ha avuto Angela Merkel, l’Italia ora Giorgia Meloni, in Gran Bretagna la prima è stata la Thatcher.
E trovo significativo che siano tutte donne che sono espressione della destra. Anche nel mio ambito: io so benissimo chi non ha ancora recensito la mia mostra. Sono tutti uomini. C’è ancora tanto da fare. Però è vero che ci sono sempre più direttrici di musei, anche in Italia, tante collezioniste, tante galleriste».
Nella mostra espone delle manette, invita la gente a sdraiarsi in un’amaca intrecciata d’acciaio, c’è molto il tema della sessualità, del desiderio.
«Sì. Oggi spesso il desiderio rischia di diventare un prodotto, qualcosa da vendere. Il sesso può diventare anche una posa, qualcosa di asettico, uniformato. E non so se questa sessualità sempre in vetrina, sempre esposta, anche su TikTok, questa libertà possa essere considerata una liberazione. Breach of Decor, il tappeto con le fotografie dei miei pantaloni appena tolti scattate in due anni, propone un altro tipo di geometria rispetto a Mies van der Rohe. Ma è anche un accenno giocoso rispetto alla sessualità. La prima volta l’ho esposta alla Kunsthalle di Bielefeld costruita da Philip Johnson. In una delle sue biografie, si raccontava che Andy Warhol aveva scritto nel suo diario che era andato a trovarlo e aveva trovato alcune mutandesu una poltrona: such a breach of decorum.
Volevo rimettere un Johnson insieme al suo contemporaneo, Mies van der Rohe, attraverso i miei pantaloni».
Dopo lo scandalo di molestie che lo ha travolto ha deciso di separarsi dal gallerista Koenig. Quanto sono diffusi gli abusi sessuali nel mondo dell’arte?
«Anzitutto: io credo a queste donne.
Non mi ha meravigliato. Spesso essere maschio ed essere potente dà l’idea di onnipotenza, di poter fare qualsiasi cosa. Nel mondo dell’arte di oggi ce n’è meno che negli anni Novanta, per dire. Ma è ovvio che anche nell’arte, la molestia non è un fenomeno singolo, è molto diffusa».