Corriere della Sera, 11 marzo 2023
Le colpe del Ventennio su Salò
«Il Signor Maestro ci ha spiegato che gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c’è Credere, Obbedire, Combattere». C’è poi da stupirsi se tanti bambini degli anni Trenta, tirati su da maestri così in una scuola in cui perfino il manuale d’Aritmetica-Geografia-Scienze («Il passo romano di parata è un esempio di moto uniforme») era al servizio del fascismo, si buttarono a capofitto dalla parte del Duce nella repubblica di Salò?
No, risponde lo storico Gianni Oliva nel libro Il purgatorio dei vinti (Mondadori), dove spiega come parte di quella generazione finì nella sciagurata avventura repubblichina al fianco dei nazisti autori delle peggiori stragi e nefandezze della Seconda guerra mondiale. Fino a venir rinchiusi in campi di prigionia come quello di Coltano, l’antica tenuta di caccia medicea, granducale e poi reale a sud di Pisa, nota perché scelta nel 1931 da Guglielmo Marconi per lanciare quel segnale radio che accese le luci del Cristo Redentore a Rio de Janeiro.
Una storia poco nota e ricostruita attraverso le vicende politiche e umane di giovani prigionieri allora ignoti, come ovvio dato che molti avevano vent’anni o addirittura quindici o quattordici, ragazzini intrappolati dalla retorica mussoliniana («Tu levi la piccola mano,/ con viso di luce irradiato./ Tu sei quel bambino italiano,/ che il Duce a cavallo, ha incontrato...») al punto di cercar «la bella morte» eppure destinati a una vita diversa. Segnata a volte da un sorprendente recupero morale, culturale, artistico, letterario.
Al netto delle memorie di qualche nostalgico, scrive Oliva, «Coltano appare soprattutto lo specchio dello smarrimento ideologico e morale lasciato dal 1943-45: molti dei prigionieri sono ragazzi del 1925-26, adolescenti o poco più infiammati dall’educazione littoria, avviliti dal “tradimento” dell’armistizio, indignati con il re e con Badoglio, che hanno reagito alla frustrazione schierandosi dalla parte sbagliata. Lo ha scritto nel 1946 nel Sentiero dei nidi di ragno un antifascista insospettabile come Italo Calvino, partigiano garibaldino sin dal dicembre 1943». Una sofferta rilettura della guerra in montagna di un gruppo guidato da un comandante col nome di battaglia «Dritto»: «Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto».
E allora, si chiede lo storico, «dove sta la differenza tra il partigiano e il milite di Salò rinchiuso a Coltano? Tra il garibaldino, il badogliano, l’azionista e quello che si è arruolato tra i paracadutisti della Repubblica sociale, come Dario Fo? O è andato volontario nei bersaglieri di Mussolini, come Raimondo Vianello? È ancora Calvino a rispondere: la differenza è la storia. “C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi”».
Ed ecco tante storie di tanti ragazzi. Da Walter Chiari a Giorgio Albertazzi, da Ugo Tognazzi a Mauro De Mauro, da Marcello Mastroianni a Enrico Maria Salerno, da Gorni Kramer a Carlo Mazzantini fino appunto a Raimondo Vianello, che oltre quarant’anni dopo, nel 1998, spiegherà in un’intervista alla rivista «Lo Stato» di Marcello Veneziani come e perché fece quella scelta chiudendo con una battuta: «Non rinnego né Salò né Sanremo».
Lette oggi, scrive Gianni Oliva, «le sue dichiarazioni appaiono semplici, sincere, per nulla sconvolgenti», ma allora, nonostante il presidente della Camera Luciano Violante avesse già parlato (scandalosamente) dei «ragazzi di Salò», risultarono destabilizzanti. Nell’immaginario collettivo i repubblichini rappresentavano «il male assoluto». Su cui scaricare le responsabilità anche di quanti nel Ventennio si erano spellati le mani per Mussolini.
Ed è proprio su questo punto che Il purgatorio dei vinti, citando Rosario Romeo («La Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il proprio passato») batte e ribatte: «Quando mai i manuali e i docenti ci hanno insegnato che l’Italia ha perso la guerra? Per tutti noi, cresciuti nella cultura dell’Italia repubblicana, la fine del secondo conflitto mondiale è il 25 aprile, l’insurrezione partigiana nelle città del Nord, i giorni radiosi della Liberazione. La “vulgata” antifascista ha preso l’unica esperienza del 1940-45 che ci metteva dalla parte giusta della storia, la Resistenza, e l’ha trasformata nella foglia di fico dietro cui nascondere colpe, corresponsabilità, vergogne».
Basti rileggere le parole alla Conferenza di pace di Parigi, il 10 agosto 1946, di Alcide De Gasperi. Che cerca di ribaltare l’amara realtà: «Il rovesciamento del regime fascista», dice riferendosi al 25 luglio 1943, «non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato così profondo se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazione dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici...».
Il senso, traduce Oliva, è che «vi è stato un ventennio di dittatura fascista che ha dominato gli italiani con la forza della coercizione e ha tenuto il Paese legato insieme con il filo di ferro della repressione e della paura, e vi è una nuova Italia che, prima con l’antifascismo clandestino, poi con la cobelligeranza e la Resistenza partigiana, ha concluso la guerra nel fronte dei vincitori» in nome della nuova Italia marcata dalle «aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori». Per dirla con Benedetto Croce, il fascismo fu solo «una parentesi».
Ma fu davvero così? Risponde lo storico torinese: «Si tratta di una rielaborazione storicamente impropria che dimentica le folle di giovani in delirio il 10 giugno 1940 quando il Duce annuncia da Palazzo Venezia l’entrata in guerra contro la Francia e la Gran Bretagna, ma è in sintonia con uno stato d’animo diffuso nella popolazione che, dopo la primavera 1945, tende a rimuovere ciò che è accaduto per recuperare una dimensione di normalità». Senza fare i conti col passato: «La criminalizzazione di Salò serve soprattutto ad assolvere tutti coloro che sono stati fascisti sino al 25 luglio e che negli anni del regime hanno costruito carriere, ricevuto onori, lucrato fortune più o meno illecite». Una scelta che peserà, e Dio sa quanto, sulla storia a venire...