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 2023  marzo 11 Sabato calendario

A 97 anni («e mezzo, scriva pure») ha appena fatto uscire un libro di memorie e, qualche settimana fa, è andato a presentarlo a Roma


A 97 anni («e mezzo, scriva pure») ha appena fatto uscire un libro di memorie e, qualche settimana fa, è andato a presentarlo a Roma. Di persona, s’intende. Sul palco: Enrico Letta, Romano Prodi, Giuliano Amato. E Mario Draghi. Per dire.
Ma Francesco Merloni ha attraversato indenne una guerra, sette legislature, il ministero dei Lavori pubblici in piena Tangentopoli e quasi un secolo di impresa, con la sua Ariston, la «multinazionale tascabile» ereditata dal padre e portata in giro per mezzo mondo, pur mantenendo — quanti altri? — le radici sempre ben salde nelle Marche, a Fabriano (Comune retto prima proprio dal padre Aristide, poi dal fratello Antonio e, finiti i parenti, sempre e comunque da persone legate alla famiglia; tranne l’ultima, recente parentesi grillina. Giudizio: «Un disastro»). Tre Repubbliche, quasi. Da doroteo, sornione, tenacissimo.
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Prima elezione: 1972.
«Avevo imparato da mio padre, tre volte senatore. Si era preso un tumore alla gola e non parlava: andavo con lui ai comizi, ma la voce ce la mettevo io».
Che ricordo ha di lui?
«Gioviale, integerrimo».
Morì all’improvviso.
«Era il 1970, lo avevano invitato a un matrimonio, all’ultimo non ci andò perché voleva visitare uno stabilimento. Di solito andava in giro con l’autista: quella volta prese lui un’utilitaria e si schiantò».
Poteva finire lì.
«Il passaggio generazionale fu molto difficile. Avevamo delle fatture pagate con cambiali firmate da Mattei. Tre giorni dopo l’incidente le portai in banca ma le rimandarono indietro: ci avevano chiuso i conti. Per fortuna gli altri istituti non fecero lo stesso».

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La famiglia Merloni al completo nel 1970, a capotavola il padre Aristide
E i fratelli?
«Con Vittorio (poi presidente di Confindustria, ndr) litigai una volta sola, quando gli dissi che mio figlio Paolo doveva diventare amministratore delegato. Prima accettò, poi in consiglio votò contro. Era già malato, non lo sapevo. Mi confessò: “Ai miei figli avevo promesso che nella vita non sarebbero mai diventati amministratori delegati”. Con l’altro fratello, Antonio, invece non sono mai andato d’accordo».
Perché?
«Teneva per sé tutte le informazioni dell’azienda che gli era toccata, che però avevo creato io, nel 1953. Azienda di bombole: è con quella che avevamo fatto i soldi per gli elettrodomestici. Le avevo viste fare a Pisa dalla “Pignone”, che le produceva partendo dalle bombe della guerra. La “Pignone” se la comprò poi Mattei: un giorno mi confessò che a spingerlo era stato il sindaco di Firenze La Pira, glielo aveva detto in sogno la Madonna».
Mattei era di Matelica, a due passi da qui.
«Simpaticissimo, mai visto una persona determinata come lui. Quando tornava nelle Marche dalla madre, non avendo amici qui, chiamava a casa nostra. A tavola era uno di famiglia. Mi voleva da lui. A Bascapè lo buttarono giù: furono i servizi francesi. Non gli americani, con loro aveva già un accordo: doveva incontrare una delle sette sorelle».
Ha scritto: «La politica non perdona il cinismo».
«Ma un po’ ce ne vuole (ride). Una volta, quando si votava il Capo dello Stato, nessuno controllava: si entrava nell’urna e la scheda la potevi mettere in tasca. Gli andreottiani si facevano vedere con il biglietto con scritto “Forlani”».
Lei diventa ministro nel 1992: governo Amato, stavano crollando i partiti.
«Fui scelto per caso; chiesero una terna a Gerardo Bianco. Sull’annuario videro che ero ingegnere e dissero: “Facciamo lui”. Lo scoprii dalla radio. Con Amato ci trovammo subito: capiva tutto al volo, non aveva neppure una segretaria, gestiva da solo anche l’agenda degli appuntamenti».
Ai Lavori pubblici trova una situazione drammatica.
«Mi capitava di dover consolare le mogli dei dirigenti arrestati che venivano a chiedermi aiuto piangendo. C’era un clima tesissimo. Un giorno alcuni agenti della Finanza vennero a chiedermi informazioni: quando uscirono, gli impiegati degli uffici erano tutti in corridoio per vedere se mi stessero portando via in manette. Al ministero si salvarono dall’arresto solo tre donne: una la feci presidente dell’Anas».
Un giorno «Il Giornale» di Berlusconi scrisse che lei era indagato. Non era vero?
«No, chiamai Berlusconi e ci scontrammo duramente. Con lui il rapporto è stato sempre particolare».
In che senso?
«Una volta comprammo un aereo insieme dall’imprenditore Borghi. Silvio mi disse: “Franco, questo aereo andrebbe valorizzato, verniciamolo. Ci penso io”. Qualche giorno dopo andai in aeroporto: l’aveva tappezzato con il simbolo del Biscione. Se lo tenne. Berlusconi comunque è simpatico: inizialmente era pure democristiano. Con Silvio ci incontravamo in Costa Smeralda sulle nostre barche: poi tutti da lui a Villa Certosa. C’erano sempre un po’ di soubrette di Colpo grosso».
E sua moglie?
«La mia veniva e si divertiva! Era quella di Berlusconi che stava sempre in disparte».
Letta ha detto che nei momenti difficili la chiama per chiederle consigli. È vero? Lei è stato tra i suoi finanziatori.
«Gli ho detto che dev’essere più spregiudicato, più deciso. Invece aspetta sempre che siano tutti d’accordo».
Draghi le piaceva?
«Siamo amici da tempo. Per eleggere Ciampi al Colle organizzai un gruppetto di “influencer” con alcuni magistrati e generali. Ci riunivamo in una sala che ci dava Mario al ministero delle Finanze».
L’Italia si è vaccinata al populismo?
«Sono ancora tutti là: Salvini, Conte... Conte l’ho conosciuto, sa? Eravamo in Vietnam, nel 2019 ad un’assemblea Italia-Asia. Siamo stati insieme due, tre giorni. Alla fine gli ho chiesto: “Ma tu come intendi la politica, qual è il tuo progetto?”. Mi ha risposto: “Ah, seguo le orme di Moro!”. Si immagini... (ride)».
Lei fu tra i primi ad andare in Oriente.
«Portammo in Cina lo scaldacqua elettrico, non sapevano neanche cosa fosse: per vent’anni ce l’hanno copiato. A Saigon invece pranzai a casa di Giap: eroe nazionale, ma finito un po’ ai margini. Gli parlai della piccola-media impresa marchigiana».

Merloni con il generale Giap
Molti si ricordano del marchio Ariston sulle maglie della Juventus. C’era Platinì...
«Una congiuntura favorevole. Vittorio, mio fratello, era presidente di Confindustria: ce l’aveva messo Gianni Agnelli, che voleva liberarsi dei corteggiatori locali. Io, invece ero amico di Umberto: facevamo le riunioni con Montezemolo nel mio ufficio. Andavo a vedere le partite. Poi ci fu l’Heysel».
Era là?
«Sì, arrivai allo stadio con il pullman della squadra assieme a Boniperti. Dalla tribuna ho visto tutto. Mi precipitai negli spogliatori: c’era anche De Michelis. Boniperti non voleva giocare, fui io a fargli da interprete in francese con la polizia belga. Ci dissero: “È stato mobilitato l’esercito, ma arriva tra due ore; se non giochiamo ci saranno migliaia di morti”. Fu terribile, non andai più allo stadio».
Oggi come sono le sue giornate?
«Mi sveglio alle 7, doccia e colazione. Tre giorni a settimana viene la fisioterapista. Poi vengo qui in sede (che è dove siamo noi: un bell’ufficio di legno di noce con un’ampia finestra sulle colline, ndr). Mi aggiorno degli affari della Fondazione con il segretario generale (Gian Mario Spacca, per 10 anni presidente della Regione Marche, ndr). Dopo pranzo giro per gli stabilimenti».
E alla morte ci pensa?
«Ho avuto il Covid. Mi avevano dato per morto. E pensavo, veramente: sarà tra mezzora, tra due ore, domani mattina. Comunque la mia vita l’ho fatta. Cosa posso fare? Sono scampato a tanti incidenti. D’inverno ero sempre il primo ad arrivare allo stabilimento, le strade erano ancora piena di neve: un paio di volte mi sono cappottato. Un’altra volta feci un frontale: in macchina con me c’era Formigoni, feci un mese in ospedale».
Moro nell’ultima lettera alla moglie, a proposito dell’aldilà, scrive: «Se fosse luce, sarebbe bellissimo».
«Lo spero. Voglio sperare di ritrovare i miei genitori, i miei amici».
Chi le manca?
«Tanti. Ciampi, Andreatta, Bianco. La cerchia ormai si stringe».