La Stampa, 11 marzo 2023
Il Bataclan raccontato da Carrère
Emmanuel Carrère, che impressione le è rimasta dopo aver seguito giorno per giorno il processo per il massacro della notte parigina del Bataclan? «Che nonostante tutto qualcosa non ha funzionato in questo processo pur memorabile per rigore, per dignità. Ma qualcosa non ha funzionato perché si è avuta la sensazione che il principio di proporzionalità della pena sia stato sacrificato al principio dell’esemplarità».Una sentenza paradossale: morti tutti i terroristi kamikaze che hanno ammazzato centotrenta persone, è stato condannato l’unico kamikaze che aveva rinunciato a uccidere e a uccidersi, Salah Abdeslam. Condannato alla “perpétuité incompressible”, un ergastolo senza fine. È stata una specie di ghigliottina? «La ghigliottina non c’è più, ma questa pena è qualcosa che le sta poco sotto. È un verdetto che io trovo molto discutibile. In Francia le condanne alla “perpetuité” vengono normalmente accompagnate da una pena di “sûreté” di 20-25 anni. Il che significa che un condannato dopo quei 20-25 anni può immaginare di intravvedere un po’ di libertà. Per Abdeslam invece non c’è speranza, la sua perpétuité è “incompressible”, una pena studiata per persone di un’estrema pericolosità, dei grandi perversi e che era stata data solo quattro volte».Considera dunque Abdeslam come un vero capro espiatorio? «Io penso che se i veri assassini fossero stati presenti nei box degli accusati, forse loro sarebbero stati condannati questa pena terribile e incompressible. Salah Abdeslam che non ha ucciso, avrebbe preso una giusta e pesante condanna ma con un margine di speranza di libertà. È un aspetto della sentenza che ha scioccato me e anche alcune vittime e parti civili».Emmanuel Carrère, inimitabile osservatore e scrittore del male, così ragionava con La Stampa all’uscita del suo libro a Parigi che dal 14 marzo sarà anche nelle librerie italiane, edito da Adelphi (con la traduzione di Francesco Bergamasco) e intitolato come in Francia V13. Il volume raccoglie i resoconti di aula tenuti da Carrère per l’Obs e pubblicati all’epoca da vari giornali europei. È un’immersione letteraria nell’abisso di quel venerdì 13 novembre 2015, quando un gruppo di terroristi venuti dal quartiere multietnico Molenbeek di Bruxelles hanno colpito la capitale per punire la Francia per la partecipazione ai bombardamenti sullo Stato Islamico in Siria. È stato l’ “11 settembre di Parigi” per la violenza e la forza simbolica: centotrenta morti (tra cui la veneziana Valeria Solesin) e trecentocinquanta feriti. Un attacco quasi contemporaneo allo Stade de France, ai dehors di quattro bistrot nel quartiere tra Bastiglia e République e nella sala concerti Bataclan dov’era in programma il gruppo americano degli Eagles of Death Metal e dove si è consumata la mattanza più feroce. Tre terroristi kamikaze dalla galleria per oltre mezz’ora hanno giocato al tirassegno sulla gente inerme in platea urlando: Allahu akbar! Accompagnando il tutto con un sermone politico, pedagogico, sarcastico: «Siamo i soldati del califfato, siamo ovunque nel mondo, colpiremo ovunque… Prendetevela con il vostro presidente François Hollande che fa il cowboy e bombarda i nostri fratelli in Iraq e in Siria: noi siamo venuti qui a farvi provare la stessa cosa». Un mattatoio, uno choc nazionale che ha chiuso l’anno che si era aperto con la strage di Charlie Hebdo (venti morti) e quella del 14 luglio sulla promenade des Anglais di Nizza (ottantasette morti).A questo teatro del dolore, lo Stato francese ha risposto con un teatro della riparazione, un processo monumentale, nove mesi di udienze, tra il 2021 e il 2022, quattordici accusati, mille e ottocento parti civili, trecentocinquanta avvocati, un dossier lungo 53 metri. Una messinscena grandiosa, al Palazzo di Giustizia, la vecchia Concièrgerie parigina sull’Île de la Cité, tra la Sainte-Chapelle e il Quai des Orfèvre dove si aggira l’ombra del commissario Maigret. È qui che l’8 settembre 2021 s’è aperto il processo ed è qui che è arrivato Carrère armato di taccuino con il desiderio di assistere a «qualcosa di enorme e di inedito». Lo scrittore voleva capire «dove comincia la follia quando si tratta di Dio». Ma la ragione essenziale, confessa all’inizio del libro, era quella di misurare «esperienze estreme di morte e di vita» ascoltando coloro che avevano vissuto la notte del 13 novembre in prima persona, testimoni, feriti sopravvissuti, o quelli che l’avevano vissuta attraverso il supplizio dei loro cari. Non è rimasto deluso e non lo saranno i lettori.V13 è la raccolta dei resoconti ricostruita secondo un montaggio diverso, secondo l’autore secondo «una tensione narrativa diversa». Ci sono i feriti, le vittime, persone sfigurate a vita dalle pallottole, chi ha visto morire fidanzate, fidanzati, mogli, mariti, amici, trasfigurati in pochi secondi, in quella sera di metà novembre nella breve distanza che c’è tra un bicchiere in allegria e la morte. Ci sono i sopravvissuti del Bataclan, qualcuno di loro rimasto miracolosamente in vita sotto il peso e il sangue dei cadaveri degli amici. Ci sono i padri e le madri dei giovani caduti, storie che si intrecciano in un viluppo di amore e di dolore nel melting pot francese. Ci sono i poliziotti e soprattutto gli agenti dei servizi, frustrati nella decodifica degli inestricabili percorsi di questi “soldati del califfato” che pure erano stati schedati, intravisti, sospettati. Ma V13 è anche la cronaca di un grande fallimento investigativo, belga e francese. E ci sono poi anche i quattordici imputati, marginali, figure sproporzionate rispetto alla grandiosità della messinscena processuale. Quasi tutti. I veri imputati sono morti, hanno compiuto la loro missione, martiri votati al sacrificio di Allah. Tutti, eccetto uno, Salah Abdeslam che – vittime a parte – è stato la figura più tragica del processo. Era arrivato a Parigi insieme agli altri, un autista l’ha depositato, davanti al caffè cui era stato destinato. Lui ci è entrato con la cintura esplosiva. Si è seduto al bancone, ha ordinato da bere, si è guardato intorno, ha visto gente felice che rideva e scherzava, ha posato il bicchiere, è uscito dal bar e ha buttato la dinamite con cui avrebbe dovuto uccidere e morire. Ed è scappato. Salah è stato preso dopo qualche mese, a Bruxelles. Al processo, a cui è arrivato dopo cinque anni di isolamento senza aver mai parlato con esseri umani, prima ha fatto il bullo, ma poi ha finito per chiedere scusa alle vittime. Non si saprà mai se quella sera del 13 novembre davvero ha deciso di risparmiare la sue vittime designate (e sopravvivere) o se – come ha detto l’accusa – la cintura esplosiva non ha funzionato. Sta di fatto che non ha ucciso nessuno. Poco importa. Lui è ormai blindato dentro la perpétuité definitiva. La Francia aveva trovato il capro espiatorio su cui caricare tutto l’orrore collettivo di quel V13 e immaginare di aver chiuso i conti con lo stato islamico. La grande messa era finita. —