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 2023  marzo 11 Sabato calendario

L’Africa non mangia erba


 Il lettore Danilo Confalonieri mi scrive: “La questione migratoriaviene da tutti vista come “problema” contingente. Annunci, proclami, fantomatiche suddivisioni fra paesi (100 a me, 75 a te, un milione alla Turchia). È irreversibile che, ad un certo punto, milioni di persone si romperanno le scatole di mangiare l’erba. Citazione: chi non impara la Storia è destinato a ripeterla, più o meno. Dobbiamo accogliere, renderci conto che il mondo, così com’è, non durerà a lungo. I popoli barbari dell’Europa hanno travolto i Romani, ormai belli pasciuti. I Mongoli hanno governato la Cina ecc.ecc. Diciamolo a Piantedosi, un domani saremo noi “un carico residuale”.”
I milioni di persone che “si romperanno le scatole di mangiare l’erba”, di solito nell’immaginario collettivo degli italiani sono africani. Noto che nell’ultima strage di profughi nel Mediterraneo in realtà le vittime non venivano dall’Africa, assai vicina alle nostre sponde, bensì dal più lontano Afghanistan. È un dettaglio – macabro – ma serve a metterci in guardia contro un certo determinismo economico-demografico, per cui i forti dislivelli di sviluppo e benessere tra varie zone del pianeta dovrebbero automaticamente scatenare giganteschi spostamenti migratori. 
 
Non sono quasi mai i più poveri a emigrare
 
Tra l’altro, a smentire un nesso stringente tra povertà ed emigrazione, bisogna ricordare questo: pagare gli scafisti costa caro, spesso l’equivalente di un anno di reddito per una famiglia del ceto medio in Africa. A tentare la strada dell’emigrazione sono categorie medio-alte, che hanno i mezzi per pagare le organizzazioni criminali, e hanno di solito anche delle reti di contatto nei paesi di accoglienza dove sperano di trovare lavoro grazie alla solidarietà della diaspora. È così che funzionarono le nostre migrazioni nei secoli scorsi: anche se molti partivano dalle regioni arretrate dell’Italia, non erano necessariamente i più poveri tra i poveri, anzi erano spesso i più dotati (di salute fisica, di qualche tipo di talento professionale, di spirito di rischio e d’intrapresa).
 
Perché sbagliammo tante previsioni sul continente nero?
 
La narrazione italiana, sui disperati del Mediterraneo e non solo, appiattisce l’Africa su una dimensione unica: miseria e sofferenze. Le notizie positive da quella parte del mondo sembrano non interessare gli italiani, comunque non bucano la barriera d’indifferenza dei media. Per avere visibilità, l’Africa deve trasudare disperazione. “Mangiare erba”, per usare l’espressione un po’ brutale ma efficace del lettore. 
È così che di recente abbiamo sbagliato in modo clamoroso le nostre previsioni sul Covid in Africa. Ricordate? Durante il triennio della pandemia, con grande frequenza i media occidentali annunciavano che era arrivato il momento in cui il Covid avrebbe infierito sugli africani, facendo nel continente nero un’ecatombe molto peggiore rispetto a quanto sofferto nei paesi ricchi. La strage africana da Covid non arrivava mai, ma questo non scoraggiava i profetti dell’Apocalisse: continuavano a vederla dietro l’angolo. La annunciavano come una certezza, sia pure rinviandola. Di mese in mese, di anno in anno, il Covid ha esaurito la sua potenza mortale, e l’Africa se l’è cavata meglio di tutti noi. Le spiegazioni di questa felice eccezione, alla fine erano abbastanza semplici. Avendo sperimentato altri flagelli sanitari, i paesi africani hanno imparato ad avvistare le pandemie e qualcosa di buono hanno fatto per proteggere le loro popolazioni. Ma la protezione di gran lunga più efficace è stata fornita da un fattore oggettivo, più potente di ogni politica sanitaria: l’età. Banale, ineccepibile. L’Africa è giovane e il Covid uccideva proporzionalmente molto di più gli anziani. Tutto qui. 
 
La forza che viene dall’essere giovani
 
L’ecatombe da Covid sempre annunciata e mai avvenuta è stata una buona notizia africana, il risvolto positivo di un continente anomalo dal punto di vista demografico per i suoi alti tassi di natalità.Insomma avere così tanti ragazzi e bambini, una maggioranza schiacciante rispetto agli anziani, si è rivelato uno scudo sanitario eccellente, almeno contro il Covid. Possibile che nei paesi ricchi nessuno avesse previsto che l’Africa stavolta sarebbe stata più fortunata di noi? No, perché dovevamo rimproverare ai nostri governi o a Big Pharma di non fornirgli i vaccini (mentre in realtà era normale che quei vaccini andassero a popolazioni più anziane e vulnerabili). Ecco all’opera la forza dei pregiudizi, dei luoghi comuni, delle deformazioni ideologiche. L’Africa ci interessa solo se possiamo compatirla, se possiamo usarla per eccitare i nostri complessi di colpa, autoflagellarci. Una buona notizia dall’Africa non solo ci sembra inverosimile, ma nel subconscio forse ci irrita. 
Dopo il Covid, anche la guerra in Ucraina ha generato le sue profezie apocalittiche che chiamavano sempre in causa l’Africa. Le limitazioni di forniture di cereali dall’Ucraina e dalla Russia verso l’Africa dovevano creare carestie epocali, e da queste sarebbero nate ondate di profughi: milioni di poveri sui barconi perché stufi di “mangiare erba”, appunto. La guerra ha sì penalizzato il commercio globale di cereali da alcune zone, ha generato inflazione, i costi e i disagi per gli africani sono reali. Ma i milioni di profughi diretti dall’Africa in Europa non si sono materializzati. I flussi migratori sono rimasti nella norma, prima e dopo la guerra. La pressione migratoria esiste, ma forse dovremmo smetterla di descriverla come una calamità irresistibile, irrefrenabile, di proporzioni bibliche (le cavallette, le locuste), devastanti. Gli africani non “mangiano erba”. Anche le statistiche più allarmistiche sulla denutrizione o sottonutrizione la descrivono come un dramma minoritario nella stessa Africa. 
 
Intellettuali africani che denunciano il pietismo
 
Le voci più lucide della cultura africana ce lo dicono da qualche tempo, che dobbiamo smetterla di usare quel continente come oggetto di compassione, pietà, auto-colpevolizzazione, attitudini eurocentriche che invariabilmente sfociano in una cultura degli aiuti più dannosa che utile. 
Un premio Nobel africano della letteratura, il nigeriano Wole Soyinka (nella foto), ha scritto un romanzo intitolato “Cronache dalla terra del popolo più felice del mondo”. Il titolo è sarcastico, perché il romanzo è ambientato in Nigeria che di solito non figura molto in alto nelle classifiche delle nazioni più felici, dove spiccano paesi nordici come la Finlandia. L’ironia di quel titolo è rivolta ai lettori del resto del mondo. Soyinka non accetta che dell’Africa si parli sempre e soltanto come di una voragine della condizione umana. Già nel decennio scorso, quando la Bbc dedicò un documentario alla più grande città nigeriana, Lagos, lo stesso Soyinka si scagliò contro la selezione di immagini che puntavano solo sul degrado, la vita tra le feci a cielo aperto. Lagos secondo lui e molti che ci vivono, è anche una metropoli dinamica, feconda, creativa, vibrante di novità. Non da ultimo, perché è una città di giovani.
Sulla stessa lunghezza d’onda di Soyinka un altro scrittore africano, il kenyano Binyavanga Wainaina, ha scritto un pamphlet satirico intitolato “Come scrivere sull’Africa”. Ecco un passaggio: “Sulla copertina del vostro libro non mettete mai un africano contento. Usate immagini di kalashnikov, individui con le costole sprogenti per la denutrizione, seni nudi. Soggetti tabù, da evitare: la vita domestica normale, l’amore tra africani (a meno che finisca con una morte tragica)”.
 
Lagos è diversa se vista da New York
 
La mia prospettiva sull’Africa è condizionata dal fatto di vivere a New York: dove vedo transitare un flusso incessante di talenti dal continente nero. Scrittrici e scrittori, musicisti, pittori. Il Nigeria, il Sudafrica, l’Etiopia, il Congo, esportano creatività e capacità d’invenzione, che a New York hanno un pubblico entusiasta. Quando viaggio su un volo Emirates, nella selezione dei film offerti ai passeggeri c’è una ricca sezione di cinema africano, sofisticato, pieno di humour, divertente. Non è arte nata dalla disperazione o dal “mangiare erba”. C’è qualcosa che sta accadendo in Africa e passa al di sotto dei nostri schermi radar perché cerchiamo solo dei motivi per indignarci delle nostre malefatte. 
 
E la Divisione Wagner? Arriva su chiamata
 
Anche l’attualità geopolitica è meno univoca di quanto vogliamo raccontarcela. L’ultimo allarme dell’intelligence americana riguarda l’avanzata della Divisione Wagner nel Ciad. Precisazione: dobbiamo ricordare che la Divisione Wagner è un corpo di mercenari, come tale si finanzia con i pagamenti di chi richiede i suoi servizi. Questo significa che la Divisione Wagner può subire dei rovesci in Ucraina e al tempo stesso continuare a espandersi in Africa, qualora le sue succursali autonome che operano sul continente nero trovino le fonti di auto-finanziamento locali. I governi che chiamano la Divisione Wagner non corrispondono alla descrizione delle “vittime”. Praticano un gioco antico già in vigore durante la prima guerra fredda: mettono in competizione le superpotenze. Le élite africane, lungi dall’essere marionette manovrate dai paesi ricchi, sanno abilmente giostrare tra America e Cina, Russia e FranciaIran e Turchia, sfruttando le rivalità e le ambizioni per negoziare le offerte più vantaggiose. Ivi compreso sul terreno della sicurezza dove la Wagner può servire a contrastare i jihadisti oppure, al contrario, favorire la loro penetrazione. A seconda di chi paga. Esiste un fenomeno che in inglese si definisce di “agency”, di protagonismo locale. Le classi dirigenti africane sono il soggetto di molte di queste manovre, non vittime passive.
La parola ai lettori

Scrive Rosalino Sacchi da Torino: In Nigeria vissi tre anni, e la conosco bene, dal Delta fino al Lago Ciad. Era un tempo lontano, ma nulla mi fa pensare che l’essenziale sia cambiato: una grande tripartizione su base etnica e cioè il nord musulmano degli Hausa, l’est cristiano degli Ibo e l’ovest “magico” degli Yuruba, più centinaia di sub-partizioni tribali. Il mio sospetto: alle elezioni ogni etnia vota il suo uomo, e tout le reste est littérature, per dirla con Verlaine.
Una piccola conferma si è avuta pochi anni fa con la storia a suo modo divertente (perché istruttiva), del vescovo contestato. Inizia nel 2012 quando Benedetto XVI nomina il nuovo vescovo della diocesi di Ahiara, nella Nigeria sudorientale (l’ex Biafra). Ma c’è un problema: il vescovo è di etnia Ibo. Gli Ahiaresi invece, clero e fedeli, sono di etnia Mbaise, e semplicemente rifiutano il nuovo vescovo, che non può assumere la sua funzione, e dopo un po’ si dimette. La “guerra” dura cinque anni. Papa Bergoglio non accetta le dimissioni, minaccia scomuniche, e infine, siccome è un pragmatico, accetta le dimissioni e “commissaria” la sede dicendo agli Ahiaresi pressappoco – va be’, per questa volta passi, però il prossimo vescovo dovete tenervelo. Di questa storia di conclamato “razzismo” un aspetto interessante è che nei nostri media è apparsa solo fuggevolmente.  Non senza una ragione: il papa ne esce malino, dare la colpa al colonialismo è difficile, e i “razzisti” non sono del colore giusto.
E comunque, resta una storia per me “nigerianissima”. Prima della guerra del Biafra lavoravo a Kaduna (area Hausa) quando fu indetto un censimento (pericolosi i censimenti, come ben sanno gli Ebrei). La ricaduta la ebbi in cucina: il mio cuoco, un Ibo, fece le valige e sparì in direzione est. Il suo discorso era chiarissimo: “IO, QUI, farmi censire? Sono mica matto”. Notevole come la situazione fosse, al momento, del tutto tranquilla, e io non cogliessi il minimo segno di una burrasca in arrivo. Ma lui aveva antenne africane. Passò poco tempo, fu ammazzato un capo politico (e religioso) musulmano, il Sardauna di Sokoto, e a Kaduna si scatenò l’inferno. Il cuoco sopravvisse, a differenza di vari suoi co-etnici che non si erano eclissati.