Il Messaggero, 9 marzo 2023
Ritratto di Lidia Poët
«La questione sta tutta in vedere se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria... Ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle leggi... ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi... Vale oggi ugualmente come allor valeva, imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne... accalorarsi in discussioni... nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre i limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare... argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste... non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se... si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne... come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia si piegasse in favore della parte per la quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra».IL RICORSOCosì, accogliendo il ricorso della Procura del Regno, l’11 novembre 1883 la Corte d’Appello di Torino revocò l’iscrizione di Lidia Poët – “la prima avvocatessa d’Italia” – all’albo degli avvocati della medesima città. Nella sentenza era scritto anche: «Non é questo il momento, né il luogo... di esaminare se e quando il progresso dei tempi possa reclamare che la donna sia in tutto eguagliata all’uomo, sicché a lei si dischiuda l’adito a tutte le carriere, a tutti gli uffici che finora sono stati propri soltanto dell’uomo. Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divernirne le uguali anziché le compagne, siccome la Provvidenza le ha destinate».La Cassazione avrebbe confermato la pronuncia. Con la motivazione, in sostanza, che l’avvocatura era un “ufficio pubblico” e le donne non potevano accedervi. «La donna non può esercitare l’avvocatura».IL DIBATTITOSi apriva allora un lungo dibattito, ma Lidia non depose le armi. Anzi. Cominciò a collaborare con il fratello avvocato; si attivò nella difesa delle donne, dei minori e dei detenuti; fece parte del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane; partecipò ai Congressi Penitenziari Internazionali. Quando si giunse, il 17 luglio 1919, alla legge 1176 che consentiva alle donne l’ingresso in diversi pubblici uffici, la Poët ebbe la sua rivincita e si iscrisse all’albo. Aveva sessantacinque anni. Gutta cavat lapidem, “la goccia che scava la pietra”, direbbero i Latini. Sarebbe scomparsa molto tempo dopo, nel 1949, a novantatré anni.Nata a Perrero da una famiglia valdese nell’agosto 1855, Lidia si era poi trasferita con i suoi a Pinerolo. Aveva studiato un periodo in Svizzera, divenendo maestra; successivamente era tornata in Piemonte e aveva preso la licenza liceale. Rimasta orfana, si era iscritta a Giurisprudenza, a Torino, nel 1878: durante le lezioni, uno dei professori le aveva proposto «una sedia e un tavolino a parte», ma lei aveva scelto di sedersi al primo banco. Nel 1881 si laureava con il massimo dei voti, discutendo una tesi sul diritto di voto alle donne. Dopo aver svolto i due anni di pratica forense, aveva chiesto l’ammissione al Consiglio dell’ordine degli avvocati. E l’aveva ottenuta, benché ci fossero stati dei voti contrari. «A norma delle leggi italiane, le donne sono cittadine come gli uomini», dichiararono i consiglieri a lei favorevoli. A quel punto c’erano state polemiche, articoli sui giornali, azioni legali. Fra cui quella della Procura del Re. Con la conseguente radiazione di Lidia dall’albo.Della Poët si parla molto in questi giorni: non solo perché sono uscite diverse biografie, ma per la serie tv. Serie brillante e di successo, però criticata dai familiari di lei e da Cristina Ricci, autrice del libro Lidia Poët. Vita e battaglie della prima avvocata italiana, per «l’immagine distorta e leggera» che ne viene data.IL CONTESTOIn realtà, per comprendere appieno la vicenda inserendola nel contesto storico, occorre innanzitutto rileggere la sentenza della Corte d’Appello. Fa capire com’era la posizione della donna – «compagna e non uguale dell’uomo» – nell’Italia dell’Ottocento e quanta strada é stata percorsa. Lidia Poët va ricordata non solo per i risultati ottenuti, ma per la determinazione, la tenacia da lei dimostrate. Grazie alla sua forza e perseveranza, ha aperto la strada a tante altre, che hanno intrapreso la carriera di avvocato, di magistrato, di giudice. In un certo senso, le si addice l’ironica frase della first lady americana Eleonor Roosevelt: “Una donna é come una bustina di té: non si può dire quanto è forte fino a quando non viene messa nell’acqua bollente”.