la Repubblica, 9 marzo 2023
Intervista a Burhan Sönmez
Se a parlare di diritti umani è un uomo dal sorriso mite che ha conosciuto le persecuzioni politiche, le botte, il carcere e che è approdato nel Regno Unito come rifugiato perdendo tutto della sua vita precedente, il discorso esce da ogni astrazione teorica e si fa corpo, vita vera. Burhan Sönmez, che ci risponde in videochiamata Skype da Cambridge dove vive gran parte dell’anno, ha una virtù: parla coltivando la speranza. È un attivista, non ha mai smesso di esserlo. Non stupisce allora che lo scrittore turco, classe 1965, autore di libri tradotti in tutto il mondo come Istanbul Istanbulo il recentePietra e ombra, sia nella giuria del Premio Inge Feltrinelli che nel suo dna ha proprio le battaglie per i diritti. Tra l’altro Sönmez, le cui origini sono curde, presiede il Pen International, un’associazione di scrittori impegnati nella promozione della libertà d’espressione.
Perché le parole fanno tanta paura?
«L’arte e la letteratura hanno una funzione socratica, pungolano e a volte disturbano l’autorità, abbattono muri. Lo stesso i giornalisti, che infatti sono il target prediletto dei governi autoritari perché raccontano la vita reale e mostrano dettagli nascosti e rivelatori. C’è materia sufficiente per scontentare molti governi».
Quali in particolare?
«La lista è lunga: la Turchia di Erdogan, l’Iran, l’Afghanistan, l’Egitto, la Russia, l’Uganda, il Nicaragua, il Myanmar, esercitano pressioni su giornalisti e scrittori minandone la libertà di espressione.
Queste realtà devono essere un monito per le democrazie perché vigilino e non diano per scontate le loro conquiste. Guardiamo a cosa sta accadendo in Israele dove in questi giorni le persone stanno scendendo in strada in nome della democrazia».
La guerra in Ucraina cambierà gli equilibri?
«Le diplomazie devono lavorare perché si smetta di uccidere. Se non lo fanno abdicano al loro ruolo».
Lei ha una storia personale diestrema coerenza. Per tutta la vita ha fatto l’attivista: da studente, da avvocato, da scrittore alla guida del Pen. E ora attraverso l’avventura del Premio Feltrinelli.
«Ho iniziato a interessarmi di diritti umani in Turchia, prima di diventare un avvocato. Sono stato arrestato diverse volte, la prima quando ero uno studente, nel 1984, dopo il colpo di Stato. Era una fase difficile per il mio Paese, era in corso una guerra civile. Durante gli anni Novanta ogni giorno scrittori, avvocati e giornalisti venivano perseguitati, torturati, uccisi per strada. Nel 1996 sono stato aggredito dalla polizia. A quel punto la mia vita è cambiata. Ho dovuto lasciare la Turchia per la Gran Bretagna non solo perché era a rischio la mia incolumità personale ma anche per curarmi. Le mie ferite avevano bisogno di trattamenti. Sono riuscito a tornare in Turchia solo dopo dieci anni. Oggi vivo tra Cambridge e Istanbul».
È allora che ha iniziato a scrivere romanzi?
«Non potendo più esercitare la mia professione di avvocato, mi sono messo a scrivere libri. È stato punto di svolta nella mia vita, una sfida».
Eppure nel 2013 era di nuovo in prima linea nella protesta di Gezi Park a Istanbul. A distanza di anni, come giudica oggi Erdogan?
«Ha distrutto ogni istituzione democratica e usa in modo autoritario il suo potere personale.
Gli interessa solo il bene di una élite mentre priva il resto della società deidiritti basilari. Non molti mesi fa sono stati arrestati otto attivisti, mentre l’imprenditore e filantropo Osma Kavala, un membro del Pen, difensore dei diritti umani, rimane in prigione. Scriva il suo nome, è importante».
Moiséís Naím nel libro “Il tempo dei tiranni” parla di “autocrazie elettorali”, altri le chiamano “democrazie illiberali”. La convincono queste definizioni?
«Leader come Erdogan vengono spesso definiti “populisti” o “autoritari”. Mi domando come verrebbero chiamati Hitler o Mussolini se vivessero oggi. Credo che Erdogan sia un dittatore fascista».
Il Pen è impegnato in una campagna per sostenere Pinar Selek, la sociologa turca in carcere da trent’anni.
«La sua storia è pazzesca, ha subito più processi per gli stessi fatti. Ogni volta tornano ad accusarla per l’esplosione al mercato delle spezie, lasciandola appesa a decisioni differenti dei tribunali, fino al recente annullamento dell’assoluzione della Corte Suprema. Non può viaggiare, non può tornare a casa, vive in esilio e a fine marzo dovrà subire un altro processo. Stiamo organizzando con il Pen una campagna di sensibilizzazione».
Da attivista, crede che i social possano giocare un ruolo positivo in queste battaglie democratiche?
«Nei paesi autoritari i social networksono le uniche piattaforme in cui la gente può esprimersi liberamente.
Attivisti e oppositori in Turchia li usano molto, per questo spesso vengono bloccati dal governo. Non è un caso che immediatamente dopo il terremoto di un mese fa, Twitter sia stato silenziato».
Crede che le fake news riescano destabilizzare le democrazie?
«Di certo sono metodi per erodere la verità. Abbiamo visto come alcuni account Facebook siano stati usati per pilotare il corso elettorale in favore di Trump. La sfida del futuro sarà trovare una carta di regolamentazione dei social, sul modello della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
È in ballo anche la nostra privacy».
A proposito, c’è una verità nella letteratura?
«Una verità diversa, lontana da quella scientifica o dal linguaggio giornalistico. La letteratura riflette il mondo, ne è lo specchio, e trasforma la realtà con il suo carico di tragedie, guerre, sofferenze in qualcosa di meraviglioso. Per me la letteratura è il regno della bellezza, qualunque tema tratti».
E questa bellezza può essere arbitrariamente cambiata? Che cosa pensa della vicenda di Roald Dahl, delle correzioni ai suoi libri in nome del politicamente corretto?
«Non credo che gli editori abbiano il diritto di cambiare le parole di uno scrittore. Quello che è accaduto è un nonsense. Che succederà in futuro?
Nuovi editori cambieranno anche questa nuova edizione per adeguarsi a unnuovo mondo? Possiamo pensare di cambiare le parole dell’ Odissea e riscrivere Omero perché nel poema ci sono troppe scene di uccisioni e violenze?
Lasciamo ai lettori la libertà di scegliere che cosa leggere e come leggere, sono loro i padroni dei libri.
Leggere non significa accettare.
Leggere significa decidere, comprendere. La lettura è già un’operazione critica».
Prima di salutarci, Sönmez torna sul terremoto in Turchia: «In questi giorni verrà accesa una candela in ogni casa, alle nove di sera, a illuminare le finestre e ricordare chi non c’è più. Scriva anche questo, la prego».