la Repubblica, 9 marzo 2023
Intervista a Benjamin Natanyahu
Nella sede del governo di Israele, poco lontano dalla Knesset, l’ufficio del primo ministro è la “situation room” da dove si segue, attimo per attimo, ogni minima situazione di crisi. L’andirivieni continuo di consiglieri civili e assistenti militari descrive un ritmo frenetico di lavoro, anche nel giorno in cui quasi ovunque a Gerusalemme si festeggia Purim Shushan, ricordando il miracolo dello sterminio degli ebrei evitato nell’Antica Persia grazie alla regina Ester. Seduto a un grande tavolo di legno, con alle spalle i volumi del Talmud babilonese e quelli dell’Enciclopedia Judaica, Benjamin Netanyahu prepara il viaggio che oggi lo porta a Roma circondato da un Paese teatro della più grande protesta popolare che si ricordi. È la prima intervista che concede ad un giornale straniero dall’inizio delle manifestazioni nove settimane fa – contro la sua riforma della giustizia. Netanyahu spiega aRepubblica che non si sente assediato perché «la democrazia israeliana dimostra di essere robusta e uscirà più forte da questa prova». Lascia intendere di non escludere un compromesso sulla riforma e rigetta l’accusa di essere sotto il ricatto dell’estrema destra. Arriva a Roma in cerca di accordi su innovazione, gas naturale e contro il nucleare iraniano. Ma la richiesta per la premier Giorgia Meloni a cui più tiene arriva con le ultime battute, somma diplomazia e storia: «È ora che Roma riconosca Gerusalemme, nostra capitale da tremila anni». Israele è attraversata dalla più grande protesta politica che si ricordi. Da nove settimane continuano le manifestazioni contro la riforma della giustizia, accusano lei e il suo governo di voler distruggere il sistema democratico. Cosa risponde?«Rispondo che queste proteste dimostrano quanto è solida la nostra democrazia». Perché andate avanti sulla riforma se l’opposizione popolare è così diffusa?«Perché nella popolazione è molto forte la richiesta di riequilibrare la bilancia dei poteri fra esecutivo, legislativo e giudiziario. Il problema nasce dal fatto che il potere giudiziario ha avuto un iperattivismo e ha poteri straordinari, che sbilanciano questo equilibrio. Dunque, bisogna intervenire con una riforma. Il potere giudiziario deve essere indipendente, non onnipotente. Questa è la sostanza del dibattito. Le proteste sono parte naturale di questo confronto ma credo che le supereremo». Cosa dice ai manifestanti che temono per le sorti dello Stato?«Che la democrazia non solo non è a rischio ma uscirà rafforzata da una riforma della giustizia che per una parte schiacciante della popolazione è necessaria». C’è una trattativa non dichiarata sulla riforma, potrà superare le forti differenze?«L’estensione e l’entità della riforma sono ancora tutte da determinare nelle prossime settimane». Fuori da qui c’è una parte del Paese in ebollizione, la accusano di violare i principi fondamentali dello Stato…«La democrazia è frutto del bilanciamento della volontàpopolare con il risultato delle elezioni. Tutelare il diritto delle minoranze dunque è fondamentale. L’equilibrio dei poteri serve proprio a questo ma negli ultimi trenta anni in Israele è venuto meno per lo strapotere del giudiziario». Come si sente ad affrontare una nazione in tumulto?«Ricordo che quando varai le riforme economiche vi furono moltissime proteste. Allora si opponevano alla svolta in favore dell’economia di mercato. Specialmente i sindacati continuarono per mesi ma il risultato è stato che quelle riforme hanno generato un’economia molto solida. Anche perché portarono ad un nuovo rapporto fra governo e sindacati, che oggi cooperano assai meglio di quanto avveniva in precedenza». Lei è il primo ministro che più a lungo ha governato questo Paese e molti osservatori la ritengono un politico assai abile, ma in questo caso due suoi ministri, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, le rubano la scena con azioni e dichiarazioni infuocate che esaltano l’estremismo e preoccupano gli alleati. Non teme di essere intrappolato dalla stessa estrema destra grazie a cui havinto le elezioni?«Ben Gvir e Smotrich sono entrati nel Likud, non è avvenuto il contrario. La politica di sicurezza, la politica estera e molte scelte cruciali nella guida politica del governo sono affidate al Likud sotto la mia leadership». Fra le accuse più dure dei manifestanti, c’è il mancato rispetto delle minoranze.«Ci sono molte incomprensioni. Ad esempio, si accusa l’estrema destra di voler aggredire i diritti civili ed i diritti dei gay ma pochi sanno che dentro il Likud c’è una particolare sezione che si occupa di difendere i diritti delle comunità Lgbtq e che il capo di questa sezione, Amir Ohana, è stato eletto e poi scelto da me come presidente della Knesset (il Parlamento). Ed era stato in precedente ministro della Giustizia. La realtà è che ci sono molti stereotipi contro questo governo. Siamo e resteremo fedeli ai diritti civili, ai diritti delle minoranze ed alla democrazia». Gli Accordi di Abramo, siglati nel 2020 con Bahrein, Emirati,Sudan e Marocco, sono a rischio oppure possono crescere e coinvolgere anche l’Arabia Saudita?«Cresceranno. Per due motivi diversi. Il primo è la minaccia dell’Iran che tenta di dominare l’intera regione, distruggere lo Stato di Israele e rovesciare i leader di molti Stati arabi. Questi Stati vedono dunque che abbiamo un interesse strategico comune. In secondo luogo, vedono la nostra tecnologia, e innovazione, e ne colgono l’opportunità per l’intera regione. Ma soprattutto, gli Accordi di Abramo hanno rovesciato un approccio negoziale che ha tenuto banco in Medio Oriente per un quarto di secolo. Prima si diceva che la pace con i palestinesi avrebbe portato alla pace nella regione, ma questo non ha funzionato. E adesso seguiamo la strada opposta, sempre con lo stesso obiettivo della pace. Rinunciando a passare da Ramallah abbiamo siglato gli accordi con Bahrein, Emirati, Sudan e Marocco. Altri seguiranno. Con più Stati. Soprattutto se avremo anche l’adesione dell’Arabia Saudita. Ma questa deve essere una scelta saudita». A Riad ribattono che aderiranno solo a condizione chela pace con loro porti ad un accordo conclusivo fra Israele ed i palestinesi. È un obiettivo possibile?«Da Riad vi sono molte dichiarazioni ma credo, certo, che l’accordo di pace fra noi e i sauditi porterà all’accordo con i palestinesi a patto che accettino di riconoscere l’esistenza di Israele». Resta il fatto che la pace con i palestinesi non potrebbe essere più lontana. Le violenze nei Territori si moltiplicano e i vostri contatti con l’Autorità nazionale palestinese sono quasi inesistenti. La scelta degli Accordi di Abramo di lasciare i palestinesi per ultimi non si è rivelata un errore?«Il problema dei palestinesi è che restano imprigionati nel rifiuto di Israele come stato ebraico, a prescindere dai confini. Si opponevano prima della nascita dello Stato e si sono opposti dopo. Per questo rigettarono la partizione della Palestina nel 1947, per questo si batterono contro Israele quando Giudea e Samaria erano in mano ai giordani e sempre per questo l’Olp venne creata nel 1964, tre anni prima della guerra dei Sei Giorni. La Palestina che volevano liberare era Tel Aviv e Haifa. Questa fantasia di voler distruggere Israele, continuataanche dopo gli accordi di Oslo nel 1993, non finirà mai per scelta politica palestinese ma può dissolversi per effetto dei nostri accordi di pace con gli Stati arabi. E se scomparirà, avremo le condizioni realistiche per una pace con loro». Se il presidente palestinese Abu Mazen volesse trattare, lei sarebbe pronto?«Certamente si, ma sono loro che non vogliono negoziare». Il direttore della Cia, William Burns, afferma che l’Iran ha bisogno di appena 12 giorni per iniziare ad arricchire l’uranio a fini militari. Come fermare Teheran?«L’Iran deve sapere che faremo ogni cosa in nostro possesso per evitare che diventi una nazione sulla soglia della potenza nucleare. Non c’è alcuna maniera di impedire a un regime canaglia di ottenere armi nucleari senza la credibile minaccia militare». Lei è in arrivo in Italia. Quali sono le priorità nelle relazioni con il nostro governo?«Anzitutto con l’Italia abbiamo relazioni molto solide ma vorrei vedere più collaborazione economica. Israele è una patria dell’innovazione e credo che reazioni più strette con le vostre aziende saranno positive perentrambi. E poi c’è il gas naturale: ne abbiamo molto e vorrei discutere di come farlo arrivare in Italia per sostenere la vostra crescita economica. Sul fronte strategico parleremo dell’Iran: dobbiamo impedire che raggiunga l’atomica perché con i suoi missili potrebbe raggiungere molti Paesi, anche in Europa, e nessuno vuole essere preso in ostaggio da un regime fondamentalista dotato del nucleare. Inoltre, auspico un’accelerazione nel cambiamento di approccio dell’Italia alle votazioni all’Onu. Dal 2015 l’Italia ha votato all’Onu ben 89 volte contro di noi. È un fatto che stride con le ottime relazioni bilaterali. Invece di occuparsi di nazioni come Siria e Iran dove i diritti più elementari vengono violati, all’Onu si vota contro Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente. Infine, vorrei con l’Italia una partnership più stretta sulle politiche Ue». La premier Giorgia Meloni è leader di Fratelli d’Italia, un partito molto pro-Occidente, ma anche con le radici nel postfascismo. Quale approccio ha verso una forza politica europea di questo tipo?«Faccio attenzione al fatto se le persone che la compongono hannoimparato la lezione della Storia. Non ho dubbi sul fatto che Meloni ed altri leader del suo partito l’abbiano imparata, condannando chiaramente l’antisemitismo e l’antisionismo. Questo è fondamentale. Il pericolo che abbiamo oggi è la convergenza a cui assistiamo in Europa fra alcuni gruppi dell’estrema sinistra, che mossi dall’odio verso Israele si alleano perfino con i jihadisti dell’Islam radicale che disprezzano i diritti delle donne». Lei è fra i pochi leader ad avere un rapporto diretto con il presidente russo Putin. È pronto a svolgere un ruolo per avvicinare la fine della guerra in Ucraina?«Sono pronto a fare qualsiasi cosa per porre fine a questa carneficina. Se entrambe le parti decideranno che è arrivato il momento di cercare una mediazione e che potrei essere di aiuto, lo considererò. Ma, tragicamente, non credo sia ancora arrivato questo momento. Questa guerra andrà ancora avanti prima di veder sorgere questa opportunità». Perché restate in bilico fra Russia e Ucraina, da cosa dipende?«Israele è l’unico Paese i cui piloti volano sulle Alture del Golan a brevissima distanza dai jet russi in Siria. Perché dobbiamo prevenire gli aiuti militari iraniani agli Hezbollah. Abbiamo un evidente interesse a evitare un confronto con la Russia. Abbiamo anche centinaia di migliaia di ebrei che ancora vivono in Russia e non vogliamo che la loro immigrazione in Israele venga impedita. La nostra relazione con la Russia è molto complessa ma facciamo il possibile per aiutare gli ucraini e per far finire questo conflitto». Lei è un noto appassionato di storia antica, ebraica come romana. C’è una lezione di quel lontano passato che può esserci utile per affrontare le sfide di un XXI secolo che continua a sorprenderci?«La Storia è imparziale e non perdona. Non favorisce i virtuosi, chi ha una superiorità morale. Favorisce chi è forte. Se vogliamo proteggere i nostri valori, diritti, le nostre libertà, dobbiamo essere forti. La lezione che ci viene dal passato è che la superiorità morale non garantisce la sopravvivenza della nostra civilizzazione. L’Impero romano sopravvisse per secoli perché era il più forte, quando altri più forti sorsero, scomparve. Niente può garantire la longevità delle nazioni ma quello che possiamo fare è proteggere le nostre libertà, con la forza, il più a lungo possibile. Ma, a proposito di Storia, credo che anche il legame fra Roma e Gerusalemme abbia molto da dirci...». Pensa alla distruzione del Tempio da parte di Tito?«È stata sempre una relazione complessa. Da quando le legioni di Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme, dando vita alla Diaspora, fino a quando nel XIX secolo il giovane movimento sionista di Teodoro Herzl vide nel Risorgimento e in Garibaldi un esempio a cui ispirarsi per l’unificazione e la liberazione di un popolo intero. Proprio in ragione di questa tradizione così forte e antica fra Roma e Gerusalemme credo sia venuto il momento per Roma di riconoscere Gerusalemme come capitale ancestrale del popolo ebraico, da ben tremila anni. Come hanno fatto gli Stati Uniti con un gesto di grande amicizia».