La Stampa, 8 marzo 2023
Scioperare sotto al fascismo
Marzo 1943: dopo vent’anni di “pace sociale” imposta dalla dittatura, nelle fabbriche del Nord ricompaiono gli scioperi. Fatto scatenante è la disposizione governativa di corrispondere un’indennità speciale di 192 ore, pari al salario di un mese, ai lavoratori sfollati che si sono trasferiti lontano dai centri industriali per evitare i pericoli dei bombardamenti e che per lavorare sopportano spese e disagi del pendolarismo: il provvedimento appare iniquo a coloro che rimangono nelle città perché non hanno i mezzi per sfollare e affrontano le emergenze quotidiane delle bombe e della fame. Di qui la richiesta di corrispondere l’indennità a tutti, perché «tutti hanno la bocca sotto il naso».I primi a muoversi sono gli operai di Torino: poi il fenomeno si allarga alla provincia (dalla Riv di Villar Perosa alle Ferriere di Avigliana), raggiunge l’area milanese (la Pirelli, la Falck), tocca le industrie tessili del Biellese, si estende verso l’Emilia e il Veneto (Porto Marghera). Per quasi un mese le certezze del regime vengono messe in crisi dall’interno del Paese, manifestazione di un disagio che rende evidente la perdita di consenso del fascismo."Sciopero” è un termine che non va equivocato: le agitazioni del marzo 1943 non hanno nulla a che vedere con le massicce astensioni dal lavoro dell’Italia repubblicana. Nel corso del mese la protesta non coinvolge più di 200mila lavoratori e 200 aziende, in un’articolazione di iniziative diverse che, come sintetizzerà Mussolini a metà aprile affrontando il problema davanti al direttorio del Pnf riunito a Palazzo Venezia, comprendono «scioperi lunghi, scioperi bianchi, fermate di dieci minuti, di mezz’ora, di un’ora»: gli episodi di lotta si sviluppano solo all’interno delle fabbriche e hanno un’eco limitata alle periferie operaie, perché un energico spiegamento di forze dell’ordine impedisce qualsiasi manifestazione esterna e perché le informazioni su quanto avviene vengono rigorosamente taciute. Si tratta comunque di un momento di rottura, in cui il malcontento che da mesi serpeggia in larghi strati della popolazione per il peso del conflitto si traduce in iniziativa: per la prima volta il regime si scontra con un’opposizione aperta, il cui significato va ben oltre le piattaforme rivendicative attorno a cui la protesta si aggrega.La storiografia militante ha accreditato a lungo la versione secondo cui gli scioperi del marzo 1943 sono iniziati con un moto compatto nelle officine di Mirafiori e hanno espresso insieme la consapevolezza politica della classe operaia e la capacità direttiva delle cellule del Partito comunista. Si tratta di una narrazione nata, prima ancora che dagli storici, nei giorni stessi degli avvenimenti, quando l’obiettivo propagandistico della stampa clandestina faceva premio su ogni altra considerazione. Mirafiori, inaugurata dal regime del 1939 con grande enfasi mediatica, era penetrata nell’immaginario collettivo come simbolo stesso della modernità: associare l’inizio dello sciopero alla più grande e avveniristica fabbrica italiana, significava offrire alle agitazioni una bandiera di riferimento.In realtà, Mirafiori non viene coinvolta in modo compatto e non si pone come avanguardia del movimento, così come il retroterra delle agitazioni non ha tratti marcatamente politici, ma affonda le sue radici in un antifascismo esistenziale. Nell’inverno 1942/43 il fronte interno manifesta segni di cedimento in tutta Italia: le sconfitte in Africa Settentrionale e in Russia, i giovani caduti sui vari fronti, le distruzioni dei bombardamenti, le difficoltà di approvvigionamento, il “pane nero” assurto a simbolo della fame, il peso di una guerra sempre più palesemente persa, fanno maturare la disaffezione dei ceti medi urbani, il malcontento delle campagne, il progressivo distacco di alcuni settori imprenditoriali. Nessuno di questi fattori è tuttavia tale da porsi sul terreno dell’iniziativa: oscillando tra il malumore sordo ma passivo delle masse contadine e la frustrazione impotente dei ceti impiegatizi, la crisi sviluppa un’atmosfera di rassegnazione sofferta e di stanchezza che mina le basi di consenso del regime senza tuttavia sfociare in momenti di aperta ribellione.L’iniziativa parte invece dagli operai del Nord per ragioni diverse. In primo luogo, perché la riorganizzazione del lavoro imposta dalle esigenze della guerra ha portato all’aumento dei turni e dei ritmi, al superamento dei meccanismi del cottimo, all’omogeneizzazione dei salari: questo ha annullato la frammentazione categoriale della massa operaia, su cui il regime aveva fondato la stabilità sociale nelle fabbriche, avviando un processo di ricomposizione interna. In secondo luogo, le speculazioni del mercato nero livellano le retribuzioni verso il basso, rendendo difficile la stessa sopravvivenza; in terzo luogo, le condizioni di vita delle città industriali, con la minaccia delle bombe, l’insufficienza delle razioni alimentari, la mancanza di combustibili, rendono ancora più grave la percezione dell’emergenza bellica.Le manifestazioni del marzo 1943 nascono da questo insieme di fattori prepolitici e sono riconducibili piuttosto al rifiuto della guerra fascista, che al rifiuto del fascismo. Come tali, esse vanno sottratte al mito e restituite alla dimensione reale. Non si tratta del colpo di maglio di una classe operaia che si riappropria all’improvviso della propria coscienza di classe, ma di un processo costruito tra incertezze, debolezze e slanci improvvisi, i cui soggetti sono donne e uomini che per la prima volta si schierano e devono imparare ad usare gli strumenti della partecipazione attiva.Cionondimeno, si tratta dell’inizio di un percorso che il Paese percorrerà drammaticamente nel biennio successivo. A coglierne la gravità è lo stesso fascismo, che risponde agli scioperi con una repressione energica: duemila incarcerazioni, la revoca dell’esonero per servizio nell’industria bellica a molti operai che vengono così inviati al fronte, un clima di intimidazione generalizzato.