Corriere della Sera, 8 marzo 2023
Intervista a Cecilia Alemani e Massimiliano Gioni
La fai tu o la faccio io la prossima Biennale? Si diranno questo Cecilia Alemani da Inzago-Milano e Massimiliano Gioni da Busto Arsizio rimboccandosi le coperte nel loro appartamento in affitto a Manhattan, quarto piano senza ascensore e senza lavatrice perché a NY la lavatrice in casa è temutissima per via delle infiltrazioni («il bucato si fa in lavanderia, come nei film»)? Uhm... Gioni&Alemani sono la nostra più famosa coppia di curatori d’arte. Lui, come direttore della Fondazione Trussardi, riuscì a spaventare Milano con gli impiccati del suo amico Cattelan appesi a un albero. Lei, laureata in Filosofia alla Statale, è stata la prima italiana a dirigere una Biennale riempiendola di artiste nere dimenticate (e alcune dimenticabili).
Galeotta fu l’arte.
«Ci siamo conosciuti a un’inaugurazione a Milano, poi a una mostra in Spagna. Io facevo uno stage all’edizione di Manifesta di San Sebastián nel 2004 e Massimiliano era il curatore».
Ma come si può venire da Busto e Inzago e «diventare» americani?
«Non abbiamo ancora la cittadinanza americana, forse perché siamo orgogliosi di essere italiani: l’America, per quanto accogliente, ci mette tanto prima di riconoscerti cittadino. Nato a Busto o cresciuta a Inzago e venire qui? Andy Warhol diceva che il bello di nascere in una cittadina è che vuoi andare via al più presto» risponde Gioni, che si scusa con i bustocchi per aver già usato questa frase.
Visto che «Non siamo mica gli Americani», come cantava Vasco Rossi (copertina con bandiera Usa con i colori di quella italiana), cosa siete: pennelli in fuga?
«Al massimo in prestito o, forse, uccelli migratori che proseguono sulla stessa rotta avanti e indietro non secondo le stagioni ma le necessità. Abbiamo curato alcune delle più belle mostre in Italia. La strada da Busto a NY, detto alla newyorkese, è una sola: a chi chiede come si arriva alla Carnegie Music Hall si risponde “Practice, Practice, Practice”, ovvero lavora, lavora, lavora».
Avete l’aria di due studenti master rimasti fuori Italia: cosa vi piace dell’America?
«Di New York ci piace la curiosità, l’apertura e la densità: in un giorno si possono visitare cinque o sei musei, gallerie, senza avere la macchina e gratuitamente. E poi i ristoranti con i sapori da tutto il mondo concentrati in un’isola di neanche 20 chilometri».
Veniamo all’organizzazione domestica...
«Alemani fa la spesa ed è un’ottima cuoca; Gioni ha cucinato una sola volta 18 anni fa ed è stato accusato di tentato avvelenamento. Mangiamo spesso fuori casa, ma Gioni pulisce la cucina», rispondono in coppia.
Viaggi? Bambino? Nonni?
«I viaggi ce li prenotiamo da soli, per portare Giacomo a scuola facciamo a turno e se c’è bel tempo andiamo insieme. I nonni li sentiamo entrambi. Tolleriamo a vicenda il disordine dell’altro, anche se vorremmo essere più ordinati e ci accusiamo di essere disordinati». Alemani sostiene che a ogni richiesta Gioni risponda con «un attimo devo finire un’email». Gioni sostiene che Alemani «lasci gli sportelli aperti e le scarpe in giro» (ma questa è cosa nota a tutti i mariti).
Dove tenete tutti i cataloghi? Nell’appartamento libero dalla lavatrice?
«La situazione è complicata. Abbiamo una stanza-libreria e un piccolo ufficio dove c’è un’altra libreria con i testi per le mostre alle quali stiamo lavorando; ma poi (colpa di Massimiliano dice Alemani) nell’appartamento crescono pile verticali di libri. A casa ce ne sono 3000. Circa 4000 sono in un Manhattan ministorage, un deposito con i volumi in ordine alfabetico. Poi a Milano abbiamo un appartamento (disegnato dal prozio di lei, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, ndr), con altri 4000 libri. Altri sono a casa dei nostri genitori».
Ti voglio vedere a prendere l’areo se ti manca una citazione!
«Gioni – dice Cecilia – passa ore a spostare casse da un deposito all’altro: prima organizzava spedizioni intercontinentali. Gli piacerebbe una libreria organizzata, ma si deprime poiché gli sembra che gli altri abbiano libri più belli dei suoi. Insieme stiamo cercando di completare la collezione dei cataloghi della Biennale dal 1895 a oggi. Ci mancano ancora quelli dal 1895 al 1903» (nel caso qualcuno fosse in ascolto).
Meglio curare una Biennale o vedere il partner curarla?
«Curare una Biennale non è una passeggiata. Per carità, ci sono molti altri lavori difficilissimi e non ci stiamo lamentando. Tuttavia, organizzare una grande mostra con risorse economiche limitate e, nel caso di Cecilia – aggiunge Gioni —, in mezzo a una pandemia è uno sforzo ciclopico che toglie ore di sonno e riempie di ansia. Ma è anche una delle mostre più belle al mondo e un esempio di istituzione italiana amata e rispettata. Pensiamo che sia più bello curare la mostra che vedere il partner curarla perché da fuori si vede sofferenza e stress mentre da dentro ci sono momenti di gioia e di soddisfazione».
Quanto pesano comunicazione e finanza nell’arte contemporanea?
«Girano molti soldi, ma immaginare l’arte come un complotto plutocratico è una distorsione e non rende giustizia né all’arte né a chi partecipa al suo mondo. Non credete a chi vi dice che l’arte sia un mondo per soli ricchi (tra questi il sottoscritto che scrive, ndr). L’arte è un territorio aperto e ricettivo nel quale tanti artisti venuti dal nulla – e anche curatori, intellettuali – trovano un accesso che in altri settori sarebbe più complicato, se non impossibile. Certo, è un sistema nel quale si muovono persone con tantissimi privilegi, ma è un mondo nel quale l’eccentricità e la differenza sono ancora apprezzate. Nell’arte, più che la finanza contano le idee e il desiderio di trasformare il mondo o la nostra percezione del mondo».
Gli Stati Uniti (liberal) sono la fucina del mainstream: Cancel culture, #metoo, post colonial studies... come vivete in queste tendenze?
«Siamo d’accordo nell’immaginare un mondo in cui le differenze di opinioni, origini e comportamenti siano celebrate: un mondo complesso, ricco di storie, sapori, colori, accenti diversi. All’Italia farebbe bene aggiornarsi sull’apertura di certa America, sebbene gran parte dell’America sia arroccata su posizioni conservatrici, persino violente e troglodite. Ci sono anche eccessi di conformismo in America mentre l’Italia resta orgogliosa di essere insofferente alle regole, anche se poi gli italiani fanno in fretta a intrupparsi. L’arte è lo spazio dove si impara a convivere con ciò che non capiamo, il luogo dove libertà e la diversità sono vissute nelle loro conseguenze più strambe e radicali».
Di cosa parlate quando non parlate di arte?
«Parliamo di e con nostro figlio. Parliamo del casino che regna in casa. Pensavamo che vivere con qualcuno che condivide la tua professione non fosse una condizione ideale. Tuttavia, abbiamo scoperto che rende le cose più facili, efficienti e divertenti. L’unico al quale magari così tanta arte darà fastidio sarà nostro figlio», il quale, per contrappasso, immaginiamo vorrà fare l’impiegato.