il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2023
Selvaggia Lucarelli contro Milano
Vivo a Milano da quattordici anni, sono in affitto e non comprerò casa a Milano. È una conclusione amara, sulla scia di un disamoramento graduale e malinconico. Di quelli da matrimonio sfibrato, in cui vuoi ancora bene a qualcuno, ma non lo ami più. Ecco, io voglio bene a Milano, ma l’incanto è finito. Non so bene quale sia stato il punto di rottura, forse il giorno in cui mi sono ritrovata con un genitore anziano costretto a trasferirsi qui e ho fatto i conti con quello che significa iniziare una vita in questa città partendo da zero. La ricerca di un monolocale per mio padre è stata straziante e quando infine abbiamo realizzato che doveva vivere con noi, ma che la mia casa non era sufficientemente grande, ho provato a cercare un’altra casa in affitto. Ho scoperto che a meno di 3.000/4.000 euro al mese, per le nostre esigenze, non c’è nulla. E che per comprare una casa sui 150 mq a Milano, in una zona fuori dal centro, servono 750/800mila euro. Anche ad averli, è una cifra folle, che difficilmente potrà mai essere un investimento, a meno che il prezzo delle case a Milano non superi quello di Manhattan. Intanto, ho amici che avevano case in quartieri considerati malfamati che oggi sono diventati benestanti rivendendo l’appartamento a quattro volte la cifra a cui lo avevano comprato e amici che si sono visti raddoppiare l’affitto e sono dovuti andare a vivere altrove. La gentrificazione a Milano è uno dei più grandi inganni a cui sto assistendo da quando vivo qui. C’è una tale fame di case che quartieri che non esistevano o che venivano considerati brutti senza speranza, sono rimasti praticamente identici, ma ribattezzati con nomi glamour (Nolo, per esempio) per illudere la gente di comprare o affittare a prezzi legittimi nelle nuove zone trendy. Un universitario si trova a pagare 700 euro al mese una stanza – una vera e propria rapina – ma accidenti, una stanza nel quartiere Ortica! Bastano due graffiti e una balera per sentirsi nel cuore pulsante della città più europea d’Italia. Per non parlare del nuovo quartiere green Cascina Merlata, con vista inceneritore.
Mia madre, nel frattempo, è morta di Covid quattro mesi fa: dalla Rsa a Milano in pieno centro in cui si trovava era stata portata in un ospedale a Sesto San Giovanni, dove se non fossi intervenuta con una denuncia pubblica, l’avrebbero lasciata morire in un pronto soccorso. La Milano della sanità eccellente e invidiata da tutta Italia, naufraga sugli scogli della realtà e delle chat di Gallera. Vorrei che riuscissero a consolarmi gli slogan rampanti sulla Milano dinamica e lanciata verso il futuro, respiro a pieni polmoni l’aria di novità, ma i polmoni soffrono: Milano è la quinta città più inquinata del mondo, quasi ai livelli di Dhaka, in Bangladesh. E manteneva questo triste primato pure durante i giorni del lockdown totale, nel marzo del 2020, a dimostrazione che il problema è di una complessità preoccupante. Beppe Sala, però, sa come risolverlo: con l’area B, la più grande area Ztl del Paese, che di fatto rende il centro della città sempre più una roccaforte per residenti e privilegiati. E contemporaneamente, già che ci siamo, per incentivare i cittadini a prendere i mezzi pubblici, a gennaio sono aumentati i costi dei biglietti. Ma non basta: i taxi sono pochi e lasciano cittadini e turisti a piedi, solo che per non irritare la casta non si concedono nuove licenze, ma in compenso stanno per arrivare i taxi volanti, sicuramente pronti per le Olimpiadi invernali. Perché qui il fantasma dello slogan pre-pandemico “Milano non si ferma” è sempre presente, il sindaco Sala è in prima linea quando c’è da tagliare nastri e inaugurare settimane dei mobili, della moda, eventi, nel raccontarci la Milano fighetta, modaiola, arcobaleno, con la beneficenza e il welfare sempre narrati con toni paternalistici (“guardate Milano e i milanesi come sono buoni e accoglienti!”) e mai con i toni duri e preoccupati che sarebbero necessari per descrivere le enormi sacche di povertà. È vero che Milano è una città popolata da persone generose, ma è altrettanto vero che c’è una generosità facile, figlia di un privilegio immutabile, che non teme nulla. I tanti ricchi sanno che esistono i tanti poveri, ma non li vedono, sono a una distanza di sicurezza che rende facile la benevolenza (Vedere alla voce: perché il Pd a Milano va così forte). Il centro dei privilegiati è sempre più largo, le diseguaglianze sociali crescono in maniera sempre più netta: ci sono interi quartieri popolati da stranieri (penso a via Padova, viale Monza, Jenner) e quartieri semi-periferici da cui si sta allontanando anche la classe media, perché pure un bilocale in Cenisio inizia a costare troppo. E poi ai fortini dei ricchi nati dal nulla e tirati su in fretta, una sorta di città-Stato di manager e vip, per esempio CityLife, dove un migliaio di milanesi tra cui i Ferragnez vivono in case da 10.000 euro al mq. Se c’è una cosa che racconta queste contraddizioni meglio di tutto il resto, è il costante piagnisteo dei ristoratori in questa città: non trovano personale. Ci sono 5000 ristoranti, 8000 esercizi in tutto, un numero enorme per una vasta clientela spendente, ricca. Il problema è che se tanta gente si può permettere di spendere, troppa gente non si può permettere di lavorare. Oggi nessun cameriere o cuoco che non abbia una casa a Milano si può permettere di guadagnare 1.500 euro al mese. Penso a quanti giovani inseguono il sogno della Milano della moda, dei locali, delle università fighette, delle feste, delle mostre, contribuendo a gonfiare la bolla immobiliare, accontentandosi di loculi e posti letto dentro cabine armadio. Tra parentesi, Milano ha grossi problemi anche con la movida: non esistono grandi piazze con locali e ristoranti e larghe zone di aggregazione. Corso Como, Porta Ticinese e i Navigli sono diventati i luoghi preferiti della micro criminalità, le gay street di Buenos Aires sono un dedalo di vie prese d’assalto dalla comunità arcobaleno e non solo, con guerre tra Comune e residenti sfiniti da caos e rumore. La zona della stazione, teatro del recente accoltellamento ai danni dei poveri passanti, in dieci anni è passata dall’essere uno dei luoghi più raffinati degli aperitivi milanesi (lì aprirono il ristorante Belen e Bastianich, poi chiuso), lì c’erano bar eleganti, lì, da Giannino, cenavano Berlusconi, Galliani, il Milan. Oggi via Vittor Pisani è una sfilata di locali chiusi e di accampamenti di senzatetto. Nel frattempo, in quartieri ghetto, ci sono classi di bambini popolate solo da stranieri, fattore che ostacola integrazione e ascensore sociale in una città sempre più a compartimenti stagni.
Insomma, ho amato molto Milano, ma la storia è finita. E riconquistarmi sarà un lavoro complicato.