La Stampa, 7 marzo 2023
Moravia raccontato dalle sue donne, Carmen Llera e Dacia Maraini
Quanti Moravia ci sono? C’è lo scrittore di romanzi indimenticabili, da Gli indifferenti ad Agostino a La ciociara; c’è l’intellettuale-guru con le sue riflessioni sull’Urss e sull’America, sulla bomba atomica e sul possibile disastro nucleare che anticipano di decenni tante considerazioni odierne; c’è lo sceneggiatore e critico cinematografico; c’è l’intenditore di arte contemporanea, il drammaturgo, il giornalista-polemista, lo scrittore di viaggi. È possibile oggi “Riscoprire Alberto Moravia” e i suoi molteplici volti, come recita la rassegna dedicata al grande scrittore dalla Fondazione Circolo dei lettori insieme alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino e al Museo Nazionale del Cinema?
Lo abbiamo chiesto alla scrittrice Dacia Maraini – sua compagna negli anni Sessanta e Settanta – che oggi con il suo intervento apre la kermesse torinese – e alla poetessa e romanziera Carmen Llera Moravia, che sposò Alberto nel 1986 e che il 9 marzo interverrà con Alain Elkann, scrittore e biografo di Moravia.
«L’opera di Alberto si ispira a un modello classico di scrittura», osserva Maraini, che con Llera si occupa dell’associazione dedicata alla memoria dell’autore romano. «Ha raccontato il suo tempo ma lo ha travalicato arrivando ai nostri giorni. È riuscito a dare vita a personaggi segnati da una sorta di “amletismo”, influenzati dalla figura letteraria shakespeariana come nel caso di Michele, il protagonista de Gli indifferenti. È incerto, non sa cosa vuole, incapace di agire, ha la pistola ma al momento di sparare dimentica di caricare l’arma. Umiliato e perdente, rappresenta l’inquietudine di noi tutti, degli uomini e delle donne del Duemila. Un messaggio in sintonia con il nostro presente lo ritroviamo anche nella raccolta di saggi L’uomo come fine, in cui Alberto levava un grido di allarme contro l’esagerato consumismo del mondo occidentale, molto prima che temi analoghi venissero affrontati da Pier Paolo Pasolini».
È stato un intellettuale capace di precorrere i tempi?
«Lo dimostrano le traduzioni che arrivano da tutte le parti del mondo, l’ultima dalla Cina e la penultima dalla Francia. E i commenti alle sue opere ne sottolineano l’attualità», rileva Llera, che lo conobbe a Sabaudia, nella bella casa sul mare di Graziella Chiarcossi, filologa e cugina di Pasolini. Fu, veramente, un colpo di fulmine e da quel momento stettero sempre insieme. Alberto aveva 46 anni più di Carmen, che è nata in Spagna ma già da tempo viveva in Italia, e convolarono a nozze dopo la scomparsa di Elsa Morante, la prima moglie del romanziere. «Le sue doti erano la razionalità e la lucidità – sottolinea Llera -. Lui detestava quello che chiamava il sentimentalismo stucchevole e amava l’analisi e la logica. Il suo fascino intellettuale era innegabile e anche la sua autorevolezza: l’ho verificato nei nostri viaggi, da quando siamo andati in Israele ricevuti da Amos Oz e da David Grossman, in America accolti da platee stracolme di studenti alla Columbia University, in Russia dove veniva fermato sulla Piazza Rossa da qualche moscovita che lo riconosceva, fino all’ossequio non formale che a Parigi gli riservò François Mitterrand in procinto di diventare presidente della Repubblica. Mi ha conquistato con la sua raffinata intelligenza ma lo trovavo anche bellissimo, asciutto e scattante. La differenza d’età non la sentivo – era più grande di mio padre – e nemmeno lui se ne preoccupava. Non c’era un rapporto tra discepola e maestro. Al contrario! Alberto, il quale aveva fatto studi irregolari per via della tubercolosi ossea che lo aveva colpito da bambino, mi presentava come professoressa per il mio incarico universitario. Confessava di ritenersi fortunato ad avermi incontrato in età matura. “A quarant’anni mi ero inquartato! Poi sono dimagrito”, diceva divertito. Mi piacevano molto il suo carattere infantile e la sua leggerezza».
Ma in pubblico invece appariva sempre accigliato e anche un po’ burbero. Non era così?
«Per nulla. Conobbi Alberto – ricorda Maraini – quando mi fu presentato come possibile prefatore del mio romanzo d’esordio, La vacanza, che uscì nel 1962. Il libro gli piacque e accettò di scrivere l’introduzione. All’epoca la sua vicenda matrimoniale aveva esaurito il suo corso, Elsa era molto innamorata di Luchino Visconti. Quando incontrai Alberto era già uno scrittore famoso ma la cosa che mi colpì fu la sua vitalità. Sembrava un ragazzino e lo dimostrava nei viaggi, era il più tenace, curioso e determinato, capace di affrontare i disagi. Anche nella vita quotidiana era un compagno piacevole. Il suo tratto più singolare? Direi a volte l’impazienza. Aveva una visione dinamica della vita e non tollerava rallentamenti o troppe incertezze. Era un grande affabulatore, Pasolini non si stancava di ascoltarlo».
«Me lo ricordo in Africa – commenta Carmen – tra disavventure che mi atterrivano e che andavano dal guasto dell’aereo al soggiorno non programmato nel buio della foresta senza aiuti né soccorsi. Era imperturbabile, consumava l’ultima baguette che ci era rimasta e canticchiava da Le nozze di Figaro “Non più andrai, farfallone amoroso”. Era il suo modo coraggioso di cimentarsi con l’imprevisto. Questo era frutto della sua storia personale. I lunghi anni della sua malattia e le vicissitudini sotto il fascismo lo avevano molto temprato».
Il suo rapporto con la politica?
«Era un sostenitore del partito comunista, che apprezzava molto come partito di opposizione e non di potere – rammenta Maraini -. Fu sempre molto critico nei confronti dello stalinismo e dell’Urss. Nell’Italia bigotta e reazionaria partecipavamo a molte manifestazioni per la libertà, per esempio contro la censura dell’arte. Avevamo messo su un teatrino, il Porcospino, in cui presentavamo solo opere italiane e i burocrati si accanivano contro di noi. Memorabile fu la mobilitazione di molti intellettuali di sinistra a favore di Aldo Braibanti. Un caso dolorosissimo: partigiano e artista, Braibanti fu, come lo definì Carmelo Bene, un “genio straordinario”, e divenne il protagonista di uno dei più grandi scandali giudiziari omosessuali, costretto a vivere in Italia come in esilio. In linea con il suo sostegno all’opposizione, Alberto nel Sessantotto abbracciò senza reticenze la protesta degli studenti».
Poi accettò di entrare direttamente in politica e di essere “arruolato” come eurodeputato a Strasburgo. Come accadde?
«Una visita a Hiroshima lo segnò profondamente – spiega Llera -. Capì che in Occidente si stava sottovalutando il pericolo della bomba atomica. Lo ripeteva sempre: “Come c’è il tabù dell’incesto bisogna creare quello della guerra": ci provò con articoli e interventi, poi raccolti ne L’inverno nucleare. Enrico Berlinguer fu molto colpito dalla campagna di mobilitazione antinucleare condotta da Alberto. Venne a cena da noi con sua moglie. Un avvenimento insolito per il nostro ménage. Io non amo cucinare, vado a letto prestissimo e con Alberto consumavamo pasti veramente frugali. Il segretario del Pci gli propose di candidarsi come indipendente nelle liste comuniste al Parlamento europeo. Gli disse, molto affettuoso e attento: “Non dovrai preoccuparti del viaggio. Andremo insieme”. Il 7 giugno 1984 Berlinguer pronunciò il suo ultimo discorso a Padova e l’11 morì. Fu terribile. Per Alberto, data l’età, l’elezione a Strasburgo rappresentò un impegno molto faticoso. Ma decise di onorare la promessa fatta a Enrico, svolse il suo incarico con dedizione e passione».
Fece politica anche con le sue opere?
«Con la sua letteratura – commenta Maraini – fu uno dei maggiori demolitori di pregiudizi, riuscì a mettere in crisi la morale corrente e il perbenismo legato all’idea autoritaria e patriarcale della famiglia. Gli indifferenti e Il conformista, da cui fu tratto il bellissimo film di Bernardo Bertolucci, sono anche una critica radicale alla dittatura. Non tollerava la destra italiana neofascista. Avrebbe voluto anche in Italia quello che c’era nel resto d’Europa: una destra “normale”, liberale e non nostalgica del passato. Fu sempre aperto e attento ai giovani talenti, come Bertolucci...».
«Che aiutò – interrompe Llera – a scrivere alcuni dialoghi di Ultimo tango a Parigi. Bernardo sosteneva che Alberto era un maestro da cui aveva tanto da imparare».
«Fu molto disponibile a sostenere negli esordi molti ventenni e trentenni – aggiunge Maraini – pubblicandoli sulla rivista Nuovi Argomenti da lui diretta. Tra questi scrittori c’era, per esempio, Sandro Veronesi».
Il sesso è il protagonista di tutti i romanzi di Moravia. Ma il nesso letteratura e vita è molto forte: è stata lei, Llera, l’ispiratrice delle sue ultime opere, come L’uomo che guarda, tra le più trasgressive di Moravia?
«Alberto è sempre stato tormentato dalla gelosia. In una lettera mi scrisse “Morirò e tu sposerai un altro” – afferma Llera -. Non è accaduto. Io sono molto autonoma e solitaria. Lui mi ha accettato con la mia inquietudine esistenziale, con la mia voglia di avventura e di ricerca e con il mio desiderio di libertà. Al contempo io non rompo mai i legami e mantengo rapporti con persone con cui ho avuto un flirt o un incontro anche 30 anni fa. Lui rispettava la mia indipendenza. Ma Alberto aveva le sue irrequietezze. Frequentavano la nostra abitazione donne bellissime, Fanny Ardant, Carole Bouquet, Francesca Dellera, Eva Robin’s. Avevamo due camere da letto. Lui ogni tanto si affacciava da me, temeva che io non fossi tornata mentre io non sono mai andata a controllare nelle sue stanze».
Si diceva che fosse avaro. È così?
«Un pregiudizio messo in giro da chi lo voleva attaccare considerandolo uno scrittore scomodo – dice Maraini -. Il padre di Alberto era di origine ebraica e gli si gettava addosso l’accusa antisemita. Era assolutamente disinteressato. Elsa, anche dopo la fine del matrimonio, poteva accedere liberamente al suo conto. Fu sempre vicino ai suoi amici, come i pittori che a loro volta lo stimavano molto, da Piero Guccione a Renato Guttuso, da Titina Maselli a Giosetta Fioroni, da Mario Schifano a Franco Angeli. Per i pittori aveva una speciale ammirazione. Gli piaceva il loro rapporto artigianale con la realtà».
«Ho ritrovato nel fondo Moravia una lettera – aggiunge Llera – in cui chiedeva di potersi ritirare dal premio Strega del 1952, che poi vincerà con I racconti, e di far partecipare al posto suo un giovane scrittore che lo meritava. Il suo nome? Italo Calvino».
Qual era il suo rapporto con la vecchiaia?
«L’estate prima della sua morte, avvenuta nel settembre 1990 – ricorda Llera – l’abbiamo trascorsa in Irlanda. All’aeroporto gli proposero una carrozzina. Si infuriò. Bisogna morire prima di diventare dipendenti dagli altri. E se ne è andato in piena autonomia, diciamo così, senza i pesanti contraccolpi dell’età».
«Mi diceva: “sono vecchio” – osserva Maraini – ma poi eccolo pronto a macinare chilometri a bordo di Land Rover non perfettamente funzionanti, oppure a dormire in tenda per terra nel deserto. Non fingeva di essere giovane. Lo era nella mente. E questo gli ha permesso di essere anche un narratore prefigurante della nostra modernità». —