la Repubblica, 7 marzo 2023
A Hollywood manca la quota italiana
Partiamo da due esempi, lontani nel tempo ma ugualmente istruttivi.
Rodolfo “Rudy” Valentino era nato a Castellaneta, in Puglia, ma divenne famoso a Hollywood. Essendo italiano, gli facevano fare il torero, lo sceicco, il tenente russo (in Aquila nera ), il franco-argentino (in I quattro cavalieri dell’Apocalisse ):
tutto tranne che l’italiano. Non sappiamo che cosa gli sarebbe successo con l’avvento del cinema sonoro, perché morì nel 1926, quando il cinema era ancora muto.
Pierfrancesco Favino è un attore bravissimo ed è un autentico uomo-orchestra: sa fare tutti gli accenti, anche il francese maccheronico se deve fingersi D’Artagnan. Quando viene chiamato in grosse produzioni hollywoodiane, a volte gli fanno fare “l’italiano”, come in Angeli e demoni, in Una notte al museo, in Miracolo a Sant’Anna e in Rush (dove è Clay Regazzoni, che era svizzero ticinese). Non sempre, certo. Perché Favino è bravo e il suo inglese è probabilmente perfetto (anche se dovrebbero dirlo i madre-lingua anglofoni).
Per gli attori italiani è durissimo sfondare nel cinema internazionale. E non perché non siano in grado di recitare in inglese. Ma perché il cinema internazionale ha le sue regole. Altre etnìe, come l’ispanica e la cinese, sono ormai presenti in massa nel cinema americano perché in America ispanici e cinesi sono milioni, e perché i mercati di lingua spagnola e cinese sono vastissimi e appetibili. L’ultimo esempio, attualmente al cinema, è The Whale : non c’è un motivo al mondo per cui l’infermiera che assiste il protagonista obeso sia asiatica (l’attrice Hong Chau, vietnamita nata in Thailandia), se non assicurare al film una quota “etnica” che ormai, per mille motivi commerciali culturali e politici, è indispensabile. In questo mercato globale, l’Italia è una nicchia produttivamente debole (mentre la Francia, per esempio, è una nicchia più grande e produttivamente più potente: per cui Marion Cotillard può essere Lady Macbeth accanto a Michael Fassbender in un film girato in inglese; con esiti discutibili, ma intanto lo fa).
Avremmo il diritto, noi italiani, di pretendere che quando grosse produzioni americane vengono in Italia a girare storie italiane (un esempio: House of Gucci) prendano attori italiani? Sì, ce l’abbiamo. Ma loro hanno il diritto di non ascoltarci, perché se i film vanno girati in inglese e puntano a un mercato mondiale, Lady Gaga “tira” più di … metteteci il nome italiano che volete. Avremmo il diritto di pretendere che, quando in un film ambientato magari in Patagonia, o sulla Luna, un personaggio è italiano quel personaggio sia interpretato da un italiano? Fino a un certo punto, perché oltre alle esigenze produttive esistono anche le scelte artistiche di un regista. John Ford, in Il grande sentiero, fece un western dalla parte dei Cheyenne, ma per i ruoli “parlanti” di nativi americani prese due divi messicani, Ricardo Montalban e Dolores Del Rio, e… un italiano, Sal Mineo, figlio di siciliani. E d’altronde, come possiamo essere rigidi su queste cose noi italiani, che abbiamo amato e apprezzato Burt Lancaster nel ruolo di un principe siciliano e Jean-Louis Trintignant nella parte di un giovane romano destinato a morire in un sorpasso azzardato?
Una cosa sono le garanzie sindacali e lavorative, altra cosa la giustezza di facce e voci all’interno di un film.
Bisogna essere fluidi, parola oggi assai di moda. E non cadere nel circolo vizioso di un “politicamente corretto” che ormai si inalbera se un attore etero fa un ruolo da omosessuale, o viceversa. E in futuro, che i nostri giovani imparino bene l’inglese, per andare a Hollywood senza paura: se nasceranno i Maneskin del cinema, ne saremo tutti felici.