Corriere della Sera, 7 marzo 2023
Intervista a Mr. Rain
«Scrivo anche quando c’è il sole...». La leggenda di Mr. Rain – una delle sorprese dell’ultimo Festival di Sanremo dove da sconosciuto al pubblico nazionalpopolare è arrivato al terzo posto con «Supereroi» e ora è al secondo posto della classifica ufficiale e al quinto fra i più trasmessi dalle radio – traballa.
Ma come, dice che si chiama Mr. Rain perché scrive solo quando piove...
«Diciamo che le cose scritte con il bel tempo non mi piacciono. Non ne ho mai pubblicata una. Spero di migliorare e soprattutto di capire il perché. Sono un maniaco del controllo e non saperlo mi fa impazzire. Comunque il disco è in ritardo proprio a causa della siccità...».
Tiene d’occhio il meteo?
«Non sono fan delle previsioni meteo, guardo fuori dalla finestra e vedo se piove».
I supereroi quelli veri, le piacciono?
«Amo i film Marvel, più che dei fumetti, sin da quando ero bambino. C’è una mia foto vestito da Spider-Man per Carnevale: avevo 8 anni».
Mr. Rain è un nome da cattivo dei fumetti, da villain, altro che supereroe...
«Forse per quel mister... ma io sono buono».
In effetti nei suoi testi non gira tanta droga, non c’è ostentazione di soldi e marchi, non si respira l’odore della strada. Ha senso un rapper buono?
«È tutta la vita che mi dicono che non sono un rapper e infatti ho fatto pochissime collaborazioni, ma non mi interessa. Mi sento un outsider. Racconto quello che vivo e voglio essere sincero. Quel mondo non mi appartiene, non mi rappresenta. La musica è un mezzo per portare messaggi positivi. Evito di dare il cattivo esempio».
Potrebbe?
«Sono stato fan di Eminem: lui parlava di droghe e psicofarmaci e anche se sono stato un ragazzo normale, basic, qualche incontro con le droghe l’ho avuto anch’io proprio perché emulavo il mio rapper preferito. Quando sei molto giovane sei fragile, sei vulnerabile e ti fai condizionare dalla persona che hai come riferimento. Per questo cerco di dare messaggi positivi».
Più che del buono però le hanno dato del furbo per aver portato un coro di bambini all’Ariston. Una mossa acchiappa voti?
«Nel 50-60 per cento delle mie canzoni c’è un coro, che sia di adulti o di voci bianche. Penso dia un senso di unione. Uso cori veri, in “Fiori di Chernobyl” a un certo punto riconosco anche una voce che stona. Credo però che “Supereroi” sia arrivata per altro. Lo capisco dalla gente che mi ferma, mi parla e mi lascia qualcosa. Sapere che verranno a cantarla in tour, magari per aiutarsi a superare un periodo duro come quello che canto nel brano, è la cosa più bella che mi potesse accadere».
Il brano parla della necessità di chiedere aiuto per uscire da un periodo buio. Ne ha avuto uno anche lei?
«Tutto è cominciato prima del Covid. Ho passato due anni in cui facevo fatica a dormire, non scrivevo, non parlavo con nessuno... mi ero chiuso in una bolla creata da me stesso. Ho iniziato un percorso di terapia per capire cosa non funzionasse in me. Ho avuto il supporto della mia famiglia, del mio team ma soprattutto della mia ragazza che vive con me da 6 anni. Adesso riesco a spiegare quello che provo e solo così non mi sento solo e non ho vergogna dei miei dubbi e delle mie paure».
Quali erano?
Ero un grande fan di Eminem, ho anche la sua faccia tatuata. Però è venuta così male che sembra un suo cugino di terzo grado
«Insicurezze, paura di perdere qualcosa o qualcuno, non mi andavano alcuni miei atteggiamenti, difetti estetici come gli occhi che non mi piacciono. Mi sono immaginato cose, mi sono creato barriere e solo parlando con alcune persone sono riuscito a vedere tutto da una prospettiva diversa».
Si ricorda di quando ha scritto «Supereroi»?
«Era maggio, ero negli studi della mia casa discografica, la Warner. Il ritornello è venuto subito e ci ho messo un po’ di giorni per completare il resto. L’ho fatta avere subito ad Amadeus e sono rimasto in attesa 4-5 mesi... Volevo quel palco, era un sogno. Per me Sanremo è il simbolo della musica italiana e volevo farne parte prima o poi».
Ci aveva già provato?
«Tre volte, ma non mi avevano preso. Ci sono rimasto male ad ogni “no”, ma meglio così. Ero ancora troppo chiuso e timido».
Mattia Balardi, il suo vero nome, guardava Sanremo?
«In famiglia sì. Poi dopo un periodo di stacco in cui ascoltavo solo musica internazionale ho ripreso a seguirlo. Mi ricordo 10 anni fa Mengoni con “L’essenziale”, un super pezzo».
Le sue passioni musicali?
«Come dicevo, ero fan di Eminem. I capelli biondi vengono da lì. Mi sono fatto anche dei tatuaggi per lui. Uno con la sua faccia, ma è così brutto che sembra suo cugino di terzo grado. E come lui aveva la D e il 12 (la sua crew ndr) io mi sono fatto M e 19, iniziale del nome e data di nascita».
Quando ha iniziato a scrivere canzoni?
«A 16 anni ho caricato il mio primo mixtape su YouTube. Ho capito che solo scrivendo potevo spiegare quello che sentivo dentro. La musica mi ha aiutato ad alleggerire il carico emotivo».
Rapper anomalo non solo nel linguaggio pulito: c’è molta musica suonata nei suoi dischi più che basi elettroniche...
«Non avevo soldi per iscrivermi a un corso di produzione per crearmi le strumentali da solo e allora ho iniziato a seguire tutorial di pianoforte, chitarra e Logic, un software. Il mio mood era quello di Macklemore, un modo pop di fare rap e con strumenti veri. Poi ho iniziato anche a farmi i video da solo. Per me immagini e canzone sono un pacchetto unico. A volte addirittura parto dall’idea del video. Mi piacerebbe provare a fare qualcosa al cinema, magari dirigere un corto».
Ama il cinema?
«Mi è sempre piaciuto. Fra i film preferiti Interstellar, Into the Wild e Donnie Darko che ho visto 5 volte, la prima su suggerimento di mia mamma, prima di capirlo».
Prima che la musica diventasse una professione?
«Ho vissuto fra Desenzano dove sono nato nel 1991 e Brescia, dove ho fatto le superiori. Ho fatto il portapizze, il giardiniere, aiutato papà che fa il fornaio, aggiustavo pc mettendo in pratica il diploma di perito informatico, foto e video ai matrimoni... Con i guadagni compravo strumenti e tecnologia».
Sa fare il pane?
«L’odore di pane per me è casa. Lo so fare, ma non lo preparo mai. Lo prendo da papà che lo fa per il negozio di famiglia a Carpenedolo: fondato da mio bisnonno, oggi ci lavora una delle mie sorelle. Una vita durissima, pesante, fatta di sacrifici enormi».