Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  marzo 07 Martedì calendario

Intervista al leprologo Enrico Nunzi

Era rinchiuso nel lebbrosario di Genova da 30 anni, T.A., quando sposò F.B., sua compagna di sventura da 20. Da giovane aveva tentato di spianarsi i noduli: si passò sul viso un ferro da stiro rovente, in seguito si diede fuoco alla faccia. Morì lì dentro, investito da un camion entrato per le consegne all’ospedale San Martino. «Lei finì in rianimazione. Dopo una settimana aveva ancora addosso il sangue del marito. Dovetti richiamare in servizio dalla pensione l’inserviente Nicoletta perché le lavasse i capelli», racconta il professor Enrico Nunzi. Il dermatologo arrivò nel 1966 in quello che con un eufemismo allora si chiamava Isolamento III, sbarrato da inferriate alte 4 metri, di notte sorvegliato dai carabinieri, zerbini impregnati di lisoformio all’entrata. Ne uscì da pensionato 45 anni dopo. «Da alcuni giorni il reparto è stato chiuso. I degenti saranno dirottati alla clinica di malattie infettive diretta da Matteo Bassetti».
La lebbra è così: si prende la tua vita per intero. Nunzi le ha sacrificato tutto: «Mi ha persino rubato la famiglia». E racconta anche di Filippo. «Era stato rinchiuso nell’Isolamento III il 9 febbraio 1941, la domenica del bombardamento su Genova. Ne uscì solo da morto. Fece in tempo a seppellire sette primari. Sette! Tranne me. Sa qual era il suo unico guaio di salute? L’eccesso di colesterolo».
Non esiste in Italia un leprologo più esperto di questo ottantunenne, costretto a reggersi su due stampelle. È stato amico di Raoul Follereau, il filantropo francese che abbandonò il giornalismo per combattere il morbo di Hansen. Ha fondato e presieduto la Società italiana di hanseniologia. Ha curato i lebbrosi in Camerun, Congo, Eritrea, Ghana, Somalia, Filippine, Mozambico, Bangladesh, Ecuador. Lo ha fatto senza mai indossare la mascherina: «Mica c’era il Covid. E poi un malato non si sarebbe fidato di un medico che si proteggeva naso e bocca».
Una vita contro la lebbra.
«Ero ordinario di dermatologia all’Università di Genova. Finito l’incarico, sono andato a insegnare come volontario all’ateneo Utpl di Loya e a curare gli hanseniani in Ecuador, sulle Ande, fino a oltre 3.000 metri. Già Loya è a 2.123 e io soffro di ipertensione e diabete. Non potevo continuare. Nel 2015 ho smesso».
Perché si fissò con questa malattia?
«Nel 1963 ero studente universitario a Padova. Andai a una conferenza di Follereau. Quella sera stessa scattò la vocazione. Zena, un’inglese amica dei miei genitori, mi regalò il Manual of leprosy di Ernest Muir. Lo bevvi in una notte».
Divenne amico di Follereau.
«Nel 1969 lo incontrai a cena con la moglie Madeleine nella villa genovese di Aldo Baccaredda Boy, dermatologo che a 93 anni veniva ancora in ospedale. Follereau indossava la solita lavallière, la cravatta annodata a fiocco. Mi fece una dedica su un libro per mio figlio: “A Paolo, affinché sappia che suo padre aveva un amico un po’ profeta”. Cancelli pure il po’. L’ultima volta lo rividi a Parigi nel 1976, un anno prima che morisse».
Quando avvenne il primo incontro con la lebbra dopo essere diventato medico?
«Nel 1967, in Camerun. Fu come incontrare la donna amata. Nel 1969 scrissi a François Hoenen, vescovo di Kenge, in Congo: verrei a lavorare gratis nella sua diocesi. Accettò. Follereau mi disse: “Conosco Mobutu, se vuoi ti raccomando”. Ingraziarsi un dittatore? No, grazie».
Di che campava? È ricco di famiglia?
«Angela, che poi sarebbe diventata mia moglie, mi spediva Topolino con tre banconote da 10.000 lire nascoste fra le pagine. Le giravo alla missione per l’alloggio. Tre anni meravigliosi, di fame vera. Mangiavo lombrichi e formiconi. L’ultimo medico era fuggito da Kimbau dieci anni prima, quando la rivoluzione culminò con l’assassinio di Lumumba e l’indipendenza dal Belgio. Trovai le capre che pascolavano in sala operatoria. Incidevo alla luce della lampada a petrolio. Dal 1970 mi stipendiò lo Stato congolese. Il giorno che me ne andai, il capo dei travailleurs ordinaires, i lavoratori governativi, stava sull’attenti: “Monsieur le docteur, che disposizioni mi dà per la sua assenza?”. Scoppiai a piangere».
Quanti lebbrosi ha trattato?
«In Africa? Impossibile dirlo. Dal 1990 al 2012 ne ho curati 162 a Genova: 33 italiani, 123 immigrati, 5 bambini adottati. Un solo vip: un cineasta che aveva girato molti film all’estero».
E quanti ne ha persi?
«Di lebbra non si muore, se non per danni secondari, come la nefrite, che provoca un blocco renale. Però nelle fasi acute aggredisce i nervi ed è terribilmente dolorosa. Un paziente lombardo m’implorava di tagliargli il braccio».
Come si cura il morbo di Hansen?
«In passato si doveva assumere a vita il solfone, una specie di sulfamidico messo a punto nel 1941. In precedenza si iniettavano sali d’oro, tossici, o si usavano altre porcherie: olio di chaulmoogra, una noce indiana, blu di metilene, sali di molibdeno. Negli anni Ottanta i lebbrosi nel mondo erano ancora 15-20 milioni. Poi il viterbese Piero Sensi creò per la Lepetit un antibiotico efficace, tutto italiano: la rifampicina. Preso una volta al mese, in associazione con solfone e clofazimina, in tre anni estirpa il Mycobacterium leprae, l’agente eziologico della lebbra. Adesso l’Oms sostiene che basta un solo anno di cure e che i nuovi hanseniani scoperti nel 2021 nei vari Paesi, in primis Brasile, India e Indonesia, sono stati 140.594. Ma io ci credo poco».
Che cosa la rende scettico?
«Il caso italiano. L’Isolamento III era uno dei quattro centri di riferimento nazionali per il morbo di Hansen. Gli altri si trovavano a Gioia del Colle, Messina e Cagliari. Non mi chieda che fine hanno fatto. Da quando i reparti sono a conduzione universitaria, decidono i professori quali patologie combattere. Chi si occupa dei lebbrosi? Nessuno, a parte Patrizia Forgione, che dall’ospedale dei Pellegrini di Napoli li mandava a me, e Gabriella Fabbrocini, direttrice di Dermatologia clinica alla Federico II, sempre a Napoli, mancata a 58 anni il 3 marzo. Chi sa qualcosa di istopatologia della lebbra? Nessuno, a parte Paolo Fiallo, che mandai a specializzarsi per due anni negli Stati Uniti ma ora se ne va in pensione».
Una malattia orfana.
«Il record dei nuovi casi in Italia, 64, si ebbe tra il 1990 e il 1994. L’ultimo dato, 2015-2019, è di 40. Tenga conto che l’incubazione dura 5-6 anni. Non s’individuano più malati di lebbra. Come mai?».
Le diagnosi riguardano gli stranieri?
«Nel 1970-1974 gli immigrati rappresentavano il 9,6 per cento dei nuovi casi. Quattro anni fa eravamo al 90 per cento. Eppure in Italia c’erano focolai autoctoni di lebbra. Dal 1991 al 1999 vidi tre casi dalla Calabria e uno dalla Sardegna. Una famiglia del Cilento conviveva con il morbo di Hansen da generazioni: lo portò un emigrante di ritorno dal Brasile nel 1926. La lebbra era endemica anche in alcune enclave di Sicilia, Veneto, Liguria. Nel corso dei secoli è passata ovunque. Solo in Europa, nel Medio Evo si contavano 9.000 lebbrosari, ne esistevano persino in Norvegia, e infatti Gerhard Armauer Hansen, il dermatologo che nel 1873 isolò il bacillo, era norvegese. Aveva il lebbrosario financo Padova. Fu chiuso nel 1936. Gli ultimi malati veneti vennero trasportati a Genova con un treno speciale: un vagone per ciascun lebbroso».
È un’infezione molto contagiosa?
«Benché un solo lebbroso non trattato possa disperdere nell’ambiente, attraverso le secrezioni nasali, fino a 10 milioni di Mycobacterium leprae al giorno, lo è solo per chi vive in condizioni di povertà, sovraffollamento, malnutrizione, scarsa igiene. Il 95 per cento della popolazione è naturalmente resistente, non sviluppa la lebbra neppure dopo contatti molto stretti con i malati. È uno dei motivi per cui mi sono sempre rifiutato di denunciare i nuovi casi ai medici provinciali».
Non credo di aver capito bene.
«Ha capito benissimo. Mai sporto denuncia per un caso di lebbra. Era una segnalazione nominativa, inaccettabile. Per l’Aids e la sifilide no, per la lebbra sì? Avvisai il presidente della Repubblica, Scalfaro. Gli spiegai che un paziente di Lecco e uno di Mantova avevano perso il lavoro per questa prassi iniqua».
Chi l’ha guidata in questa lotta che ormai dura da quasi 60 anni?
«Un insegnamento di mio padre: “Non chiedere mai agli altri una cosa che non sei in grado di fare tu”. Mi manca l’Africa. Mi mancano i poveri della brousse. Vede, io divido l’umanità in due categorie: chi ha pagato e chi non ha pagato. Io non ho pagato. Lucia Todeschini e Silvana Panzeri, entrambe di Lecco, loro sì che hanno pagato, tra i lebbrosi del Camerun. Anche Rita Rossi di Firenze, paladina dei pigmei nello stesso Paese, ha pagato. Anche Chiara Castellani di Roma ha pagato: in Congo perse un braccio in un incidente. Mi disse: “Ora posso farmi capire meglio dagli handicappati”. Anche il professor Dick Leiker ha pagato».
Chi è Dick Leiker?
«Il mio maestro, morto nel 1995. Aveva ricevuto il premio Albert Schweitzer. Si era laureato in medicina tardi, a 29 anni, nel 1948, perché prima era stato partigiano, aveva difeso la sua Olanda dai nazisti. Dopo la guerra, partì con la famiglia per la Nuova Guinea. Perse la moglie e i quattro figli in un disastro aereo. Continuò a lavorare in Nigeria fra indigeni senza faccia, senza piedi, senza mani, mangiati pezzo dopo pezzo dal morbo di Hansen. Tutto quello che so sulla lebbra me l’ha insegnato Leiker. Lo portai all’Università di Genova, come professore a contratto. Un giorno mi spedì una lettera d’addio. Era malato, si scusava. Non volle più vedere nessuno. Sento di averlo tradito. Io non sono che un bluff rispetto a lui».
C’è qualcosa di peggio della lebbra?
«Il mio e il suo egoismo, Lorenzetto».