La Stampa, 6 marzo 2023
Intervista a David Almond
David Almond è uno dei più celebri scrittori inglesi per l’infanzia. È autore di molti libri di successo, tra cui Skellig (Salani), la storia di un bambino che si trasferisce in una casa nuova e della creatura misteriosa che trova in garage (forse un angelo, forse una civetta umana), pubblicato venticinque anni fa. Da allora ha scritto molto e ha ricevuto premi prestigiosi, tra cui il Nonino e l’Hans Christian Andersen, ed è stato insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico, una delle onorificenze più importanti del Regno Unito. Domani per Salani esce il suo nuovo libro, Il canto del bosco (tradotto da Giorgia Posante).
Almond è un signore divertente e gentile, che vive sulle sponde del mare del Nord e del Nord ama il potere misterioso. Per lui scrivere per i bambini significa rispettare il futuro.
Cosa è importante quando si scrive per i ragazzi?
«Rispettarli e considerarli cittadini a tutti gli effetti. Non cittadini minori, o piccoli umani. Bisogna provare a creare qualcosa di bello senza avere paura che questo qualcosa contenga anche oscurità. Certo, non si può essere cinici, ma i bambini devono poter avere accesso a una letteratura che contenga la bellezza, l’ottimismo e anche la possibilità del buio. Se scrivi libri per loro, devi tenere a mente che stai scrivendo per il futuro. Il mio desiderio, dascrittore, è aiutarli a diventare chi devono essere, senza paura: adulti liberi. Un bambino non è una persona piccola, è una persona. E la mia speranza è poter toccare con un libro quella persona e dirle: hai tutte le carte in regola per essere forte, fantastico e libero».
Che ne pensa della decisione, poi ritrattata, della casa editrice Puffin di cambiare alcune parole, ritenute offensive, dei libri di Roald Dahl?
«Si discute da anni delle problematicità dei testi di Dahl. E non credo che riscrivere i suoi libri per farli rientrare nelle logiche delle nuove generazioni serva a qualcosa. I bambini sono in grado di capire se in un testo ci sono parole che non vanno più bene. Cambiare ciò che Dahl ha scritto mi sembra una cosa senza senso. Non lo volete più far leggere così com’è? E allora non leggiamolo più. Il punto è che Dahl è una gallina dalle uova d’oro per i suoi editori, quindi vogliono continuare a tenerlo sul mercato, ma ripulito. Nei libri per bambini c’è anche di peggio. In Inghilterra c’era quest’altra scrittrice per l’infanzia, Enid Blyton, i cui libri sono pieni di idee problematiche sulle classi sociali, sull’etnia, pieni di modi di pensare superati. Enid Blyton è un problema? Non leggiamola più. In ogni caso, a me non frega niente».
È più importante proteggere i bambini dalle brutture della vita, oppure le storie possono essere un modo per far capire loro che certe cose esistono?
«È sempre meglio accettare la vita così com’è. E la vita vera non finisce sempre bene. Anche nelle vite dei bambini succedono cose brutte: quando ero piccolo è morta mia sorella, e qualche anno dopo mio padre. Le persone che mi volevano bene cercavano di proteggermi, anche se queste cose terribili erano successe e facevano già parte della mia vita. Ecco, secondo me è profondamente sbagliato nascondere, proteggere. Io scrivo anche per il me ragazzino che ha attraversato certe avversità, e per i ragazzini che magari stanno affrontando un periodo difficile: ce ne sono tanti. Non penso sia giusto non far vedere quella possibilità. Penso sia meglio farla vedere, e dire: sì, succedono cose orrende, possono succedere, ma alla fine si sopravvive, e andrà meglio. Non solo riusciremo a sopravvivere, ma possiamo ambire alla felicità, ne abbiamo diritto. E non si può raggiungere la felicità senza accettare che nella vita c’è anche l’oscurità. Non intendo che si deve scrivere di morte e orrore, ma che si deve lasciare ai bambini la possibilità di vedere e accettare la vita per intero».
È più difficile fare il padre o lo scrittore?
«A me fare il padre è sempre piaciuto moltissimo. E non l’ho mai trovato difficile. Mia figlia ha venticinque anni, la stessa età del libro Skellig».
Tra l’altro sua figlia ha un nome meraviglioso: Freya (la dea norrena dell’amore e della fertilità, ma anche della morte e della guerra, ndr).
«Sì, volevamo darle un nome che facesse pensare al potere del grande nord. Anche se Freya era una divinità un po’ matta. Ma essere suo padre è sempre stato bello. Scrivere è senz’altro più difficile».
Nel suo ultimo libro accade una cosa che accadeva già in Skellig: i protagonisti traslocano, e vicino alla casa nuova c’è una foresta. Che un bosco sia una fucina di possibili storie si sa, ma il trasloco?
«Ho da poco traslocato anch’io, e adesso vivo vicino al mare. Il mare e la foresta sono spazi misteriosi: uno spazio dove il corpo e la mente hanno la libertà di esprimersi in un modo a cui nella vita quotidiana non abbiamo accesso. Sono luoghi di silenzio e di vuoto, solo che quel vuoto in realtà è pieno. E cambiare casa genera per forza una storia: è come cambiare vita».
Ne Il canto del bosco, un flauto molto importante è ricavato da un osso cavo. Cos’hanno in comune musica e magia?
«Sono sempre andate a braccetto. La musica ha il potere di trasportarci altrove, di aprire la porta a una miriade di sensazioni. Mentre scrivevo questo libro mi è successa una cosa curiosa. Intanto, mi ero messo in testa di parlare di un flauto ricavato da un osso perché me l’aveva descritto un’amica che è una musicista folk. Poi, mesi dopo, mentre ero in vacanza in Corsica, ed ero già nel pieno della scrittura, sono andato a un concerto in una chiesa, e un musicista a un certo punto si è messo a suonare un flauto ricavato da un osso. Ho detto: devo parlargli, devo vedere questo strumento da vicino».
Quando ha capito che la sua strada era la scrittura?
«Verso i sette anni. È un pensiero che ha sempre fatto parte di me. Naturalmente volevo anche fare il calciatore e giocare nel Newcastle. Ma ho capito abbastanza presto che quella sarebbe stata una cosa più difficile, e intanto mi sono innamorato delle parole, delle pagine: frequentavo la piccola biblioteca nel mio paesino e sognavo, un domani, di vederci i miei libri. A posteriori mi rendo conto che tutto, da quando ero un ragazzino fino all’università e poi più tardi, ha preso forma intorno al mio desiderio di diventare quello che sono diventato, ovvero uno scrittore».
E com’è stato, poi, vedere i suoi libri in quella biblioteca di paese?
«Meraviglioso. Sono entrato, ho visto un mio libro e ho pensato: “Vedi: ha funzionato"».
Le manca qualcosa della vita prima della fama?
«No, perché è sempre stata una vita di cui ero soddisfatto, anche quando facevo altro. Mi piaceva molto fare l’insegnante, per esempio, e comunque anche all’epoca scrivevo sempre. È una vita che non sento di aver lasciato indietro. Io sono sempre io, vivo ancora qui, e l’unica differenza è che adesso posso fare quello che sognavo di fare da piccolo, il che mi pare fantastico».
Lei è stato anche insegnante di sostegno.
«Intanto, ho iniziato a farlo solo perché trovavo allettante l’idea di avere lunghi periodi di vacanza, e non mi aspettavo che mi piacesse. Invece poi ho adorato quel mestiere, e avere a che fare con i bambini, che nel mio caso erano soprattutto bambini con disturbi del linguaggio. Quando inizio un nuovo libro, mi sento sempre molto vicino a loro e ogni volta mi dico: e chi se lo ricorda come si scrive?».
Parliamo di quello che sta succedendo a JK Rowling?
«Non mi interessa. L’altra domanda?».
Ho letto che adora l’aglio, mi spiega?
«(Ride, ndr). Quando ero ragazzino, in Inghilterra non si trovava. Lo assaggiai per la prima volta durante una vacanza in Spagna. Ricordo che pensai: ma che cos’è quest’esplosione di sapore? È eccezionale. Mi piace arrostito, passato sul pane abbrustolito, in tutti i modi».
Allora deve provare la più famosa specialità piemontese, la bagna caoda: una salsa di acciughe e aglio cotta a fuoco lento e che poi si può mettere dappertutto.
«Acciughe e aglio insieme? Mi sembra il cibo degli dèi».