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 2023  marzo 06 Lunedì calendario

In Veneto non si fanno più figli

BASSAN0 (VICENZA) – «Per trovare una persona da assumere ci vogliono anche cinque mesi. Nel frattempo il ritmo di ricambio del personale è raddoppiato: vale per gli ingegneri e i tecnici, ma anche per gli operai». Nello stabilimento di Bassano, dove la pianura veneta sbatte sulle Alpi, Baxi produce caldaie: ha mille dipendenti di trenta nazionalità, un tetto di pannelli solari, una nuova linea di macchinari 4.0 e sperimentazioni avanzate con l’idrogeno. Il Veneto che investe sul futuro. Solo che senza il fattore produttivo più importante, cioè il lavoro, l’ingegnere Alberto Favero, direttore generale di Baxi, fatica a immaginare un domani: «Prima cercavamo i candidati in un raggio di 20 chilometri, ora siamo a 50. La carenza di figure di tutti i livelli ha completamente sbilanciato il mercato di lavoro», spiega senza giri di parole, come si usa da queste parti. E anche la soluzione che propone è lineare: «Bisogna aumentare i flussi di lavoratori stranieri e rivedere le logiche anacronistiche che li regolano. Senza ideologie».
Più immigrazione: in Veneto lo chiedono tutti gli imprenditori. Dagli albergatori di Jesolo, che non trovano camerieri, agli agricoltori del veronese, senza personale per raccogliere le fragole. E poi i trasporti, mancano camionisti, l’edilizia, operai, la sanità, infermieri e badanti. Stupisce? Solo chi si ferma all’immagine del Veneto ultraleghista, quella del “vestirli da leprotti” per far sparare i cacciatori (Gentilini dixit). La realtà è che fin dagli anni ’80, quando mani del Nordafrica salvarono le concerie del Vicentino, produzione troppo dura e sporca per mani italiane, il miracolo Nordest è stato costruito con tanto lavoro straniero: marocchino, albanese, rumeno. E il principio molto basico dell’integrazione alla veneta – “basta che lavorino” – ha a suo modo funzionato. Stupisce altro, però: la richiesta di allargare i flussi, specie da parte degli industriali, nasce dalla consapevolezza di una crisi strutturale, non certo dovuta ai presunti “divanati” del Reddito di cittadinanza («Non c’entra un cavolo», dicono tutti), né riducibile alla ripartenza post-Covid. «I primi effetti del declino demografico sono arrivati con una rapidità spiazzante», dice Favero.
Così nel triangolo del Pil tra Vicenza, Padova e Treviso la demografia sta diventando l’ossessione numero uno degli imprenditori, più dell’energia e al pari delle tasse. Nel rapporto 2022 della Fondazione NordEst il professor Gianpiero Dalla Zuanna ha fatto un calcolo: da qui al 2030 nel Nordest “allargato”, compresa l’Emilia Romagna, verranno a mancare 50 mila lavoratori ogni anno. «I figli del baby boom, molti con la licenza media, vanno in pensione – spiega il demografo dell’Università di Padova – e i giovani che dovrebbero rimpiazzarli sono pochi e quasi tutti diplomati. In una regione di manifattura significa non avere lavoratori sufficienti soprattutto per gli impieghi base». Morale: per tenere accesa la fabbrica Veneto, in attesa di un’improbabile inversione della natalità, i flussi dall’estero dovranno crescere, e tanto. «Ma si sa – aggiunge Dalla Zuanna – la demografia guarda alla generazioni future, la politica al telegiornale della sera».
Ora però i tiggì sono pieni di aziende che si lamentano. Non a caso qualche giorno fa il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, vicinissimo alla premier Meloni, ha parlato di 500 mila ingressi in due anni. Da queste parti, mentre le imprese attendono il famigerato “click day” del decreto flussi (27 marzo) già sapendo che le quote di permessi di soggiorno non basteranno, le sue parole hanno acceso aspettative: in fondo – si ragiona – se c’è un governo che può mettere mano all’immigrazione senza essere impallinato da destra, è questo. Ma quale anima del governo Meloni vincerà: quella pragmatica o quella ideologica? «La legge Bossi-Fini è figlia di un’altra epoca: è il momento di riprendere tutto in mano, la speranza è che prevalga il pragmatismo», dice dal suo quartier generale di Campodarsego, nel Padovano, Enrico Carraro, presidente della multinazionale dei sistemi di trasmissione e leader degli industriali veneti. «A meno che non vogliamo chiudere bottega e trasformarci in una riserva Wwf abbiamo bisogno di accogliere persone». Cita quello che ha fatto la Germania, con i turchi e poi con i profughi siriani. E non è solo una questione di quantità: «Si potrebbero creare reti per formare i migranti nei Paesi d’origine e farli arrivare già preparati. Qui ci sono aziende pronte a mettere a disposizione case anche per le famiglie», dice Carraro. «Ma per ora c’è solo tanta buona volontà dei singoli. Gli strumenti per governare il fenomeno mancano».
Dall’”aiutarli a casa loro” al “formarli a casa loro”: sembra essere anche uno degli obiettivi del governo, un passo avanti. L’imbarazzo seguito alle parole di Lollobrigida però mostra come il tema immigrazione sia minato anche per questa maggioranza, dopo anni passati ad agitare spauracchi. D’altra parte, se il pragmatismo degli imprenditori ha una logica economica chiara – avere forza lavoro a disposizione, magari con basse pretese salariali – l’impatto politico e sociale di un aumento dei migranti resta un’incognita. «Non siamo stracci usa e getta», dice Abdallah Khezraji, 57 anni, arrivato dal Marocco trent’anni fa con le valigie di cartone e oggi imprenditore dell’accoglienza, con una cooperativa che gestisce due centri per richiedenti asilo a Treviso. Di lati oscuri l’integrazione alla veneta ne ha parecchi. Il caporalato c’è, e non solo nei campi, come ha dimostrato la storiaccia dei lavoratori pachistani sfruttati nel subappalto delle stamperie di Grafica Veneta. E se molti stranieri negli anni sono diventati partite Iva o “padroncini”, la gran parte forma un proletariato del lavoro non qualificato sparso tra piccole e microimprese, poco sopra la povertà. Prima o poi arriveranno anche periodi di recessione e minore occupazione, quando il “basta che lavorino” torna “ci rubano il lavoro”: in passato in Veneto perfino la Cgil e la Caritas hanno detto “basta immigrati”. «Ci vogliono nuove politiche dell’immigrazione contro l’illegalità», dice Khezraji, che però chiede anche politiche dell’integrazione. «Molti dei ragazzi che escono dai nostri centri, con gli stipendi che prendono, non possono permettersi neppure una casa. I corsi di italiano non esistono. Per avere la cittadinanza servono anni». Se il futuro del Veneto passa da loro, è un futuro che va riscrittoda zero.