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 2023  marzo 06 Lunedì calendario

Intervista a Beatrice Rana

Solo trent’anni e già parlano di lei come una delle migliori pianiste.
«Ma non ho solo trent’anni, ho già trent’anni. Siamo abituati a meravigliarci quando qualcuno al di sotto dei quaranta raggiunge successi ragguardevoli, ma dimentichiamo che i trentenni sono adulti. E poi sono una pianista: ci si consuma presto».
È faticoso?
«Le tournée certo, sono sfiancanti. Io faccio una novantina di date all’anno senza contare i festival, le esecuzioni singole o le registrazioni. La settimana scorsa ho scoperto di essere nella top ten dei musicisti più attivi e dunque tra quelli più “in viaggio”. Anche se sto cercando di ridurre, rallentare, passare più tempo a casa».
Nata in provincia di Lecce in una famiglia di pianisti. Lei, dunque, ascoltava le ballate di Chopin come ninna nanna?
«Ma anche Saint-Saëns o la Patetica di Beethoven. Mamma e papà, poi, sono due musicisti complementari: lei insegna teoria e solfeggio, lui lettura della partitura, dunque è spesso in teatro. Io e mia sorella Ludovica, che tra l’altro è una straordinaria violoncellista, siamo cresciute tra prove, retropalco, registrazioni, esecuzioni, costumi. Dunque per me è stato normale, a cinque anni, cominciare a suonare».
Esibizioni con orchestre prestigiose come i Wiener e la Chicago Symphony Orchestra, palcoscenici come la Scala o la Konzerthaus di Vienna, pubblicazioni molto apprezzate come le Variazioni Goldberg di Bach firmate a 24 anni: la carriera di Beatrice Rana è luminosa come il suo sorriso e come la sua schiettezza. In questa conversazione si avvicenderanno Mozart e i Negramaro, Chopin e i Måneskin, a riprova che la musica è sempre musica se è «viva», che sia stata composta secoli fa o la settimana scorsa.
Nella classica non ci sono tanti settanta-ottantenni che fanno ombra ai trentenni?
«Però anche loro sono stati giovani. Certo, quando affronto una tournée che mi sfinisce, tra aeroporti, prove, alberghi, cene saltate, qualche volta mi chiedo come facciano quelli più grandi. E poi, bisogna dirlo, alcuni colleghi hanno una grazia quasi magica che l’età te la scordi».
Se le dico Sokolov?
«Penso all’astrazione. Non sempre sono d’accordo con quello che fa ma non si può non rimanere ammirati di fronte a quel talento».
Che cos’è il talento per un pianista?
«È conoscere alla perfezione la musica e poi ripetere la stessa cosa sperando ogni volta in un risultato diverso. Qualche volta ho la sensazione di fare un lavoro folle, che è composto di prove e prove e prove dello stesso pezzo. Ma so anche che la musica deve entrarti nel corpo per poterne uscire trasformata. Il corpo diventa un’appendice del pianoforte. Ma attenzione a parlare di “allenamento”, è una parola che non amo».
Uto Ughi la sottolinea sempre.
«È giusto, però io cerco sempre di non separare la prova fisica dallo studio intellettuale della musica. Studiare un pezzo, cercare di comprenderlo nelle sue sfumature va di pari passo con l’esercizio quotidiano. Perché di questo si parla: uno studio disciplinato tutti i giorni».
Come si sceglie un pezzo da suonare?
«È la cosa più difficile. I promotori, giustamente, vogliono il programma con un anticipo di due o tre anni, ma io tra qualche anno non sarò la stessa Beatrice. Magari vorrò cose diverse, avrò cambiato opinione su più temi e allora magari sentirò più affine un altro pezzo o un altro compositore. La musica non è fredda esecuzione, ma deve rispecchiare quello che sei in quel preciso momento, altrimenti tutto sa di falso».
Dica la verità: qualche volta l’essere donna è stato difficile nel suo campo?
«No. Però una cosa va detta: purtroppo per noi artiste resta ancora ben salda la valutazione, vecchissima, del “bella e brava”. Cioè, accanto al giudizio sull’esecuzione di un brano affiora sempre anche un giudizio estetico, che raddoppia l’ansia. Lei non sa quante volte, salendo su un palcoscenico prestigioso, capita di sentirsi inadeguati, non per la preparazione bensì per l’abito, il trucco, i capelli. Questa tensione aggiuntiva non esiste per un pianista uomo».
«Bella e brava» nel 2023 non si può sentire.
«Ma infatti. Esempio: qualche tempo fa Yuja Wang ha fatto una cosa pazzesca alla Carnegie Hall, cioè ha eseguito tutte e cinque le opere di Rachmaninov per piano e orchestra. Bene, ma lei lo sa qual è stata la cosa più commentata sia dai critici che sui social? Il suo cambio d’abito».
È vero, in alcune c’è una compiaciuta attenzione all’estetica, ma questo non può far passare in secondo piano l’esecuzione, è così?
«È così. È questo il punto. Inoltre, non tutti sanno che l’esecuzione dal vivo è un continuo e faticoso svuotarsi. Nel concerto, specie se parliamo di un recital, dai tutto. E sei solo davanti a una platea che sceglie di applaudire o fischiare. E vorrei aggiungere una cosa: se fosse stato per l’Italia io non sarei mai diventata una pianista. Perché nel nostro Paese c’è una forte inclinazione alla critica di un connazionale e francamente non capisco perché. Viaggiando molto in tutto il mondo, non ho riscontrato questo atteggiamento in tanti altri Paesi. È un peccato, perché in Italia abbiamo musicisti straordinari».
E non solo di musica classica: ha guardato Sanremo?
«No, ero a Chicago».
Però i Måneskin li conosce.
«Altroché. Senta questa. Sei o sette anni fa io uscivo da una delle sedi dell’Accademia di Santa Cecilia, in via del Corso a Roma. Proprio lì davanti notai questo gruppo che si esibiva per strada. Mi fermai ad ascoltarli e pensai: ma guarda quanto sono bravi questi. Anni dopo li ho rivisti a Sanremo, erano i Måneskin».
L’Italia e le critiche
Se fosse stato per l’Italia, non sarei mai diventata una pianista. Perché
nel nostro Paese
c’è una forte inclinazione alla critica
dei connazionali
In giro si dice che lei ami molto i Negramaro, salentini come lei.
«Eccome. Adoro i Negramaro e qualche giorno fa ho incontrato Andrea Mariano, il tastierista. Gli ho detto: guarda che ho già preso i biglietti per il concerto a Caracalla».
E se le dico Ludovico Einaudi?
«Mi viene in mente il ghiaccio».
Beatrice...
«Ma no, dico il ghiaccio dell’Oceano Artico dove ha suonato qualche tempo fa».
Tutto qui?
«Guardi, farò una confessione: io, come, penso, anche molti altri miei colleghi, non ascolto tanta musica. È la verità: quando passi la vita a suonare dal vivo, a registrare dischi, a provare o a studiare suonando, al di fuori del lavoro non puoi più nemmeno accendere il televisore, devi “ripulire le orecchie”. Oggi c’è troppa produzione, troppa richiesta, troppa scelta con le piattaforme di musica, troppi artisti, troppo tutto».
Alla fine quello che è il motore di tutta una carriera, l’amore per la musica, scivola in secondo piano, è così?
«Io faccio di tutto per preservarlo».
Ma non è che si fanno troppi concerti?
«Ma certo. Ci si sposta rapidamente. Prima per andare in America occorrevano settimane di navigazione, oggi ci si arriva in otto ore. Ci si muove da una parte all’altra e tutto si consuma in una serata, però la musica è altro. La musica è riflessione, studio, attenzione, anche errore, perché no. E c’è un altro paradosso: oggi la qualità tecnica di un concerto e soprattutto di una registrazione deve essere perfetta, altrimenti non passa i test del mercato. C’è una tecnologia raffinatissima che ci permette di avere un suono impensabile nel secolo scorso. E poi che succede? Se in quindici secondi – perché questo è il tempo di un reel sui social – non colpisci, ecco che scattano le critiche, le campagne denigratorie. Tanta maniacale ricerca della perfezione per un giudizio che oggi si formula in pochi attimi».
Basta un tweet per affossare una carriera?
«Sì, o un post su Instagram. O una foto sbagliata che diventa virale».
Se la ricorda la sua prima esibizione alla Carnegie Hall di New York?
«Passai insonne la notte prima».
Lei si emoziona facilmente?
«Mai. Però alla Carnegie mi scappò una lacrima. E vogliamo parlare della Scala di Milano? Nella mia carriera ci sono dei momenti luminosi ai quali ripenso con gioia. Come quando, a diciotto anni, vinsi il concorso pianistico internazionale di Montréal. Il mio maestro al conservatorio, Benedetto Lupo, mi convinse a partecipare e io e mamma partimmo, pensi, con i libri di scuola in valigia: non vincerò mai, pensavo, almeno ripasserò le lezioni per la maturità. Quando annunciarono il mio nome come vincitrice mamma fece cadere la macchina fotografica per l’emozione e dunque di quel momento glorioso non resta traccia. Quindi corremmo a comprare un abito da sera nel negozio accanto all’albergo, figuriamoci se ne avevo portato uno».
Nel gennaio scorso lei ha affiancato il direttore Lahav Shani nell’inaugurazione della nuova stagione della Filarmonica della Scala.
«Ho esordito con la Filarmonica nel 2015 e ogni volta è un’emozione. Vede, negli anni ho incontrato persone straordinarie dalle quali cerco sempre di imparare. Non dimenticherò mai quando, nella mia prima registrazione per Warner, il maestro Pappano mi disse: “Beatrice, con il microfono non devi parlare, lo devi sedurre”. Cambiai del tutto l’ approccio, capii che la musica è un gioco di relazioni con gli strumenti».
Quanto è alto il rischio narcisismo per un pianista?
«Altissimo. Gli applausi lusingano, la popolarità anche. Il punto è che non te ne rendi conto. Quando siamo entrati in lockdown mi sembrava di impazzire: la mia vita era sempre altrove, poi mi sono ritrovata a casa. Ma è servito: ho studiato, ho cercato nuove forme di concerto».
Lei ha sempre detto a sé stessa: mai un fidanzato pianista.
«E invece».
E invece sta con Massimo Spada, suo collega. Come vi siete conosciuti?
«Lui mi girava le pagine degli spartiti».
Galeotto fu il libro.
«E chi lo sfogliò».