Corriere della Sera, 6 marzo 2023
Flavio Vanetti racconta Leni Riefenstahl
Stretta nel tempo, come aveva scritto nella sua biografia. Ma non negli incredibili cento anni che aveva compiuto tre mesi prima e che non le pesavano affatto mentre saliva con passo fermo e senza alcun aiuto le scale del Palazzo dei Giureconsulti, nel cuore di Milano. Leni Riefenstahl, ex ballerina e attrice, ma soprattutto fotografa e regista cara ad Adolf Hitler, nel novembre 2002 partecipò alla rassegna «Sport Movies & Tv», organizzata dal professor Franco Ascani, per ricevere la ghirlanda alla carriera. Il destino le avrebbe riservato ancora nove mesi di vita, permettendole però di arrivare a quota 101 (era nata nel mese di agosto, si spense nel novembre 2003). Credo di essere stato uno degli ultimi giornalisti a intervistarla, forse l’ultimo in Italia. Quell’incontro mi lasciò una sensazione che ancora oggi è molto viva: era l’idea di un personaggio sbucato dalla storia.
Bertha Helene Amalia (detta appunto Leni) Riefenstahl non era un tipo inavvicinabile. Anzi, gli organizzatori dell’evento la contattarono con facilità – viveva a Monaco di Baviera – e trovarono una donna contenta di raccogliere l’invito e disposta a onorarlo senza problemi di data. Il soggiorno milanese durò un paio di giorni, ma quella manciata di ore fu sufficiente per capire la sua personalità. Si sentiva donna moderna («Ma non femminista» volle precisare), senza nostalgia per quelle radici che affondavano in un mondo tanto differente.
Aveva ancora il piacere dell’eleganza e dell’apparire, declinata però in senso positivo e con orgoglio. Una volta sistemata in hotel, domandò: «Stasera le ragazze come si vestono?». Lei alla cena si presentò con pantaloni color blu elettrico che le donavano tantissimo. Aveva poi una vitalità contagiosa: oltre a fare le scale a piedi, rifiutando con decisione di prendere l’ascensore, non usava gli occhiali. Ed era rimasta la perfezionista che aveva caratterizzato il periodo nel quale aveva fuso con successo il cinema con lo sport, che per lei è «l’espressione positiva della vita»: prima di cominciare la chiacchierata, infatti, si era sincerata che il «sonoro» fosse a posto.
L’intervista fu un crescendo di temi e di emozioni, ben sapendo che prima o poi si sarebbe arrivati alla cruciale questione del suo rapporto con Hitler e con il Terzo Reich. Le chiedemmo: «Lei ammise di aver subito il fascino ipnotico del dittatore; se non ci fosse stato lui, la creatività di Leni Riefenstahl sarebbe stata differente?». La risposta fu priva di esitazioni: «Sarei stata diversa, molto diversa. Hitler mi ha cambiato la vita, ma in peggio. Diciamo che mi ha rovinato. Non è stata una fortuna incontrarlo e per 48 anni, prima che tornassi alla ribalta con Impressionen unter Wasser, documentario sulle mie quasi 2 mila immersioni subacquee, sono stata boicottata: nessuno ha voluto vedere la mia vita disgiunta da quella parentesi».
Fu sincera? Secondo me sì. Sia in quell’affermazione sia nelle altre che raccontarono la coesistenza con il nazismo, bollata e criticata soprattutto quando firmò la regia di Il trionfo della volontà sul congresso nazista di Norimberga del 1934: «Quel film è stato un documentario, nulla di più. Io dovevo spiegare quello che accadeva e le immagini, spesso, valgono più delle parole. Ma le immagini devono anche essere chiare e inequivocabili». Leni Riefenstahl mi svelò poi che Hitler amava la boxe e basta, salvo aver afferrato che lo sport è un buon mezzo per mandare messaggi alle masse, e che la sua follia non le era sfuggita: «Hanno detto che ero vicina a tutti i gerarchi, ma la verità è che la frequentazione è stata occasionale: è come se non li avessi mai conosciuti. Quando Hitler nel 1937 cominciò a prendersela con quella che definiva “arte degenerata”, ebbi il timore che potesse trasferire certe idee alla politica. Purtroppo andò così, ma mi sono sempre rifiutata di imitare le persone – e ne ho incontrate tante, ve l’assicuro – che hanno negato di aver ammirato il Führer».
Il Führer
Peraltro la condanna del nazismo – «un’ideologia sbagliata» – era in lei definitiva («Pur essendo apolitica, è un argomento che mi condiziona in negativo; l’Olocausto è stato qualcosa di orribile») e si sposava con il concetto del riscatto della Germania: «Il mio Paese si è riabilitato dagli orrori? Mi pare che abbia offerto delle testimonianze concrete in questo senso e i governanti di oggi si stanno impegnando affinché uno scempio del genere non si ripeta mai più. Anche la Ddr e il Muro di Berlino sono stati un trauma. Provavo una strana sensazione: era come avere un arto amputato e sapere, tuttavia, che era lì vicino. Volendo poteva essere riattaccato».
La infastidiva di sicuro l’accusa di aver estetizzato la politica tramite il cinema e in particolare con Olympia, il docu-film sui Giochi estivi del 1936 ospitati a Berlino che ha dato una svolta alla cinematografia sportiva. Di quella pellicola era fiera e lo dimostrò anche autografandomi con piacere le copertine dei due VHS che qualche anno prima avevo acquistato senza immaginare che un giorno sarei riuscito a ottenere la firma dell’autrice di quello storico documentario. «Non ho mai avuto lo scopo di fornire sostegni ideologici. La verità è più semplice: i miei film testimoniano solo il modo in cui ho visto le cose. E la politica era solo un aspetto, secondo me sfumato e nemmeno il più importante: la realtà mi intristiva e io badavo esclusivamente al mio lavoro». La difesa di Olympia, quindi, è puramente tecnica: è stato davvero un film modernissimo, «perché ha tradotto nei fatti ciò che era in potenza e quello che avevo in mente. Non solo: l’ho reputato un modo per proporre un’idea di pace e ho accettato di farlo solo per questa ragione».
Girare Olympia è stato faticoso («Temevo di mancare delle immagini ed essendo una presa diretta non ci sarebbe stato modo di rimediare: ritengo la pellicola attualissima anche a causa dello stress che ho dovuto sopportare») e ha messo Leni di fronte al dilemma di filmare Jesse Owens, l’eroe di colore in un’Olimpiade che avrebbe dovuto celebrare la razza ariana. A sorpresa, viste certe precedenti dichiarazioni, se ne uscì con una battuta un po’ così, per quanto anche questa figlia della spontaneità: «Avrei realizzato un film solo su Owens? No, però lo reputo il più grande atleta che sia mai esistito».
La valutazione sul fuoriclasse americano era prima di tutto di ordine estetico, «secondo le caratteristiche dello sport che nel movimento esprime fisicità». Il cinema esalta questi aspetti «con la lentezza delle immagini che emana poesia e con un linguaggio che può spiegare il campione al pubblico sotto varie angolazioni». A proposito: per lei non era meglio un corpo femminile rispetto a uno maschile, o viceversa. «Sono assolutamente uguali», disse congedandosi.
Le riprese a Berlino
Anni dopo capitai allo stadio olimpico di Berlino: in una zona dedicata alla storia dell’impianto c’è anche una foto di Leni Riefenstahl insieme a Hermann Goering, ad altri gerarchi nazisti e a Galeazzo Ciano. Impossibile non avvertire un brivido, collegando l’immagine a quel novembre a Milano e al giorno di un mio straordinario viaggio in un lontano passato.