Corriere della Sera, 6 marzo 2023
La diaspora degli artisti
L’Urss non era ancora nata e Lenin sapeva già di chi disfarsi: in una notte estiva, 160 tra medici, filosofi, teologi, scrittori «nemici della rivoluzione» furono caricati su due navi tedesche e costretti a lasciare il Paese. Era il 1922: le «navi dei filosofi» dividevano la cultura russa tra sovietica ed emigrata. Cent’anni dopo una frattura simile spacca ancora intellettuali e artisti: a migliaia lasciano il Paese per fuggire alle pressioni, sempre più forti, su chi dissente.
«Non credo che ogni artista debba essere militante», spiega Arseniy Petrov, critico d’arte ora in Italia con la famiglia. «Penso ad Anna Achmatova, a Andrey Tarkovsky: si può dire che coesistessero con la Russia sovietica. Noi, però, siamo dovuti scappare». Con la moglie, la storica dell’arte Olga Alter, e i figli, Petrov è arrivato a Venezia, fortunosamente, attraverso Istanbul. Durante una delle prime manifestazioni contro la guerra i loro tre figli di 7, 9 e 11 anni avevano portato disegni all’ambasciata ucraina di Mosca: anche se bambini erano stati arrestati, separati dalla madre e detenuti per ore. «Dopo quell’episodio abbiamo sentito uno stress insostenibile. Siamo stati incriminati, inseriti nell’elenco degli attivisti e ogni settimana la polizia veniva a casa a farci firmare “avvertimenti”. Amici tedeschi e italiani ci hanno aiutato con i visti. A Venezia siamo accolti bene. Guardandoci indietro, pare una catena di miracoli».
La diaspora degli artisti è una frazione «non piccola» di un esodo più ampio, spiega la professoressa Silvia Burini, direttrice del Centro Studi sulle Arti della Russia dell’università Ca’ Foscari: dall’inizio della guerra si stima che abbiano lasciato la Russia almeno un milione di cittadini.
Trovo molte definizioni possibili di artista, tranne: uno che giustifica la guerra Capisco che chi la giustifica venga escluso dai teatri europei
Burini, insieme alla moscovita Olga Shishko, già curatrice del dipartimento di Media Art del Museo Pushkin di Mosca e a sua volta autoesiliata a Venezia, cura un progetto di ricerca del Centro di Studi sulle Arti della Russia al dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di Ca’ Foscari intitolato «Mapping Diaspora»: «Chiediamo ad artisti, curatori, registi e attori russi in esilio di rientrare nel nostro “censimento”», spiega. Anche grazie all’aiuto di questa rete, alcuni tra gli accademici hanno trovato incarichi temporanei presso università europee. Come, ad esempio, Ca’ Foscari. «Non solo per aiutarli, essendo difficile ottenere un visto. In futuro vorremo sapere che tracce ha lasciato, sull’arte, quello che sta succedendo».
Nella rete molti nomi e storie. Come Danila Tkachenko, noto in Italia anche a chi non ne sa il nome: i libri di Anna Politkovskaja editi da Adelphi hanno tutti, in copertina, sue fotografie. Anche lui è in esilio in Italia «Mi sono esposto molto, ma la Russia è il mio Paese. Non potevo tacere». Aleksandr Povzner, riparato a Berlino, espone ora in una mostra alla Gothisches Haus un progetto sui «migranti forzati della guerra». Sergey Kishchenko ha 48 anni, e quando Putin ha annunciato la mobilitazione era già «a Kassel, lontano dalla mia Mosca. Sono partito a settembre, con 10 chili di bagaglio. A Mosca ho lasciato i miei archivi sul periodo sovietico, un tesoro. Avevo in cantiere un progetto intitolato “Palude”: buona metafora della Russia di oggi. Lo continuerò nel Delta del Po». Tra le performance di Kishchenko, Duck Test no. 4 (Cherry). Un solitario vestito da papero risponde a un interrogatorio. «Tra le domande: cos’è un artista? Trovo molte risposte, tranne: uno che giustifica la guerra. Sono contro la cancel culture, ma capisco che gli artisti che la sostengono, per ora, non possano essere benvenuti nei teatri europei». In Russia vige l’opposto: «Molestie statali a tappeto sui dissenzienti. I loro spettacoli vengono cancellati, le mostre chiuse, i libri confiscati».
«È stato l’anno delle più grandi delusioni, non mi sentivo così da quando sono rimasta vedova», sospira la curatrice Olga Shishko. «Dopo l’invasione ho lasciato il museo. Sono andata a Kaliningrad [exclave russa sul Baltico, ndr] ma non riuscivo a insegnare. Soffrivo di depressione. Ora in Italia tessere questa rete di artisti in esilio mi dà un senso di libertà. Ma in patria ho lasciato mia madre. E credo che il regime durerà almeno altri 15 anni. Il mio visto – sospira – scadrà assai prima».