Corriere della Sera, 6 marzo 2023
Analisi dei mercati globali
Concorrenza globalizzata senza freni: e per questo motivo da trent’anni i salari e gli stipendi sono scesi. E c’è anche meno welfare. Ma adesso, con la transizione green, si dovrà intervenire.
Ora vacilla anche il totem della libera concorrenza. Dagli Stati Uniti all’Europa il principio base dell’economia di mercato è rimesso pesantemente in discussione: le imprese, compresi i grandi gruppi industriali, non sono in grado di affrontare da sole la sfida epocale della transizione ecologica. Gli ultimi quarant’anni sono stati segnati dalla vendita di aziende pubbliche, dalle nuove norme per liberalizzare il mercato del lavoro, che hanno dato vita a una larga fascia di lavori precari, e dall’apertura delle frontiere per facilitare gli scambi commerciali. Un processo che ha accelerato a partire dal 2001, con l’ingresso della Cina nel Wto. Di fatto l’inizio della «globalizzazione», ritenuta la via migliore per alimentare lo sviluppo economico, benessere diffuso, dinamismo imprenditoriale, opportunità per i giovani. I dati mostrano che non è andata esattamente così. Vediamo perché.
Il calo dei salari
Le cifre dell’Ocse, rielaborate da Stefano Bernabei per Openpolis, segnalano che dal 1990 a oggi il valore medio lordo delle retribuzioni sia aumentato in 37 Paesi sui 38 che aderiscono all’organizzazione (del 33,7% in Germania, del 31,1% in Francia). L’unico Stato in cui sono calate è proprio l’Italia: -2,9% rispetto agli importi del 1990. Ma attenzione, in generale i salari non sono cresciuti in modo proporzionale rispetto all’aumento del Prodotto interno lordo.
In altre parole: la torta della ricchezza si è allargata, però la fetta destinata ai lavoratori non ha mantenuto le stesse proporzioni che c’erano negli anni Ottanta, prima della globalizzazione. Lo studio pubblicato il 22 settembre 2022 dall’istituto Bruegel di Bruxelles e dal German Marshall fund mostra che la quota destinata ai salari in Germania nel 1980 era pari al 71%, oggi è al 63%. I dipendenti francesi partivano dal 75% e si ritrovano al 66%, mentre l’Italia è passata dal 68% al 59%. Cosa è successo?
Meno risorse per il welfare
Negli ultimi 30/40 anni le spinte che fanno aumentare le retribuzioni, come il rinnovo dei contratti e le misure di alleggerimento fiscale, sono frenate da un vento contrario, quello della concorrenza, della globalizzazione e del progresso tecnologico che, invece, esercitano una pressione al ribasso su stipendi e salari. Prendiamo per esempio i metalmeccanici tedeschi: si calcola che il salario dei quattro milioni di addetti iscritti al sindacato Ig Metall abbia perso il 25% del suo valore dal 2018 a oggi. Nel novembre 2022 il rinnovo del contratto porta ad aumenti dell’8%, ma la retribuzione non crescerà abbastanza per recuperare le perdite subite a causa della delocalizzazione di impianti in Paesi dove il costo del lavoro è inferiore a quello della Germania. In tutti questi anni per le case automobilistiche (ma non solo) è stato facile mettere i lavoratori con le spalle al muro: o accettate una crescita modesta dei salari, oppure trasferiamo altre fabbriche nei Paesi dove le paghe sono molto più basse. Conseguenza: la modesta crescita dei salari comporta un minor gettito fiscale, vale a dire minori risorse finanziarie per coprire le spese sociali, che invece in Europa crescono a causa dell’invecchiamento della popolazione.
L’avanzata cinese
Sappiamo che la globalizzazione ha indotto le aziende a delocalizzare in Paesi con un basso costo della manodopera. Solo in Italia, tra il 2001 e il 2006 il 13,4% delle nostre imprese ha trasferito una parte della produzione all’estero. Tra il 2015 e il 2017 si sono spostate circa 700 aziende industriali, manifatturiere e dei servizi. Le multinazionali Usa ed europee, invece, hanno fatto rotta direttamente sulla Cina. Ma, com’è noto, Pechino le ha accolte a condizione che condividessero il patrimonio di conoscenze tecnologiche con partner cinesi. E ora gli occidentali si trovano a inseguire i concorrenti cinesi in alcuni dei comparti chiave dell’innovazione. Un solo esempio: la Cina detiene una quota del mercato mondiale delle auto elettriche pari al 30%; l’Unione europea è al 20%; gli Stati Uniti sono fermi al 7%. Per almeno un paio di decenni le diverse amministrazioni di Washington e i governi europei hanno assistito all’avanzata cinese nei settori delle energie rinnovabili, senza fare nulla, in ossequio al dogma della libera concorrenza.
L’eclissi dello Stato
In Italia, negli anni ultimi vent’anni, la «Direzione 7» del ministero del Tesoro che, si legge nel sito ufficiale, si occupa della «valorizzazione del patrimonio pubblico», si è limitata all’«esercizio dei diritti del socio nelle società partecipate dello Stato». In sostanza i funzionari dello Stato siedono nei consigli di amministrazione o incassano i dividendi, quando ci sono, di un lungo elenco di imprese: Anas, Poste, Ferrovie, Enel, Eni, Leonardo, ecc. E la politica industriale? Completamente sparita. Facciamo un solo caso tra le possibili decine. Nel 2019 la Fca (ex-Fiat) ha venduto la Magneti Marelli alla giapponese Calsonic Kansei per circa 5,8 miliardi di euro. A Palazzo Chigi c’era Giuseppe Conte, con Lega e Movimento 5 Stelle. Nessuno fece obiezioni, eppure oggi le competenze della Magneti Marelli farebbero comodo ai progetti di conversione elettrica dell’industria automobilistica italiana, o di quel che rimane.
Tirando le somme: globalizzazione e concorrenza hanno reso disponibili i beni a prezzi più bassi, ma le aziende per reggere l’offerta dei concorrenti hanno compresso il costo degli stipendi dei lavoratori. E per almeno vent’anni i governi hanno abdicato a qualsiasi funzione di intervento, ed ora è proprio la transizione ecologica ad affidare agli Stati il compito di trasformare l’economia.
La mossa degli Usa
Biden ha imposto la svolta, mettendo in campo risorse pubbliche per 369 miliardi di dollari con l’«Inflation reduction act», varato ad agosto 2022, per finanziare la transizione ecologica nei prossimi dieci anni. Il pacchetto contiene tante misure a vantaggio dei consumatori che acquistano «green» made in Usa. Ma il cuore della manovra è costituito dai 69 miliardi di dollari da destinare alle imprese che producono pannelli solari, turbine eoliche, batterie e altre componenti per i veicoli elettrici. In sostanza l’amministrazione Biden dice alle aziende: lavorate per la transizione ecologica e, di fatto, non pagherete tasse sugli utili. Bruxelles reagisce: occorre consentire alle aziende europee di reggere la competizione con quelle americane, e di resistere alla tentazione di delocalizzare impianti negli Usa. Alcuni grandi gruppi come la svedese Northvolt, la spagnola Iberdrola e l’italiana Enel, che stanno già investendo in America, sembrano guardare con interesse agli incentivi del piano Biden.
Ue in ordine sparso
La risposta di Ursula von der Leyen è il «Green Industrial Plan»: un impianto basato sull’allentamento dei vincoli sugli aiuti di Stato, e l’istituzione di un fondo comune cui i singoli Paesi possono attingere per aiutare le imprese nazionali. Germania e Francia, che hanno ampi margini di bilancio per aiutare le loro imprese, spingono sull’allentamento dei vincoli; altri Paesi, come l’Italia, che hanno un debito pubblico troppo alto, chiedono invece di costituire al più presto un fondo comune. Ma il cancelliere Olaf Scholz dice: «No». Il Consiglio europeo del 9 febbraio ha recepito le richieste tedesche e concesso più flessibilità per l’Italia nell’utilizzo di risorse europee. Del fondo comune forse se ne riparlerà più avanti.
La conclusione è chiara: il nuovo corso a Washington, come a Bruxelles, affida allo Stato, e non più alla libera concorrenza, il compito di trasformare l’economia, creare occupazione, senza penalizzare le busta paga dei lavoratori. Almeno, questa è la sfida.