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 2023  marzo 05 Domenica calendario

Su "Il numero è nulla" di Antonio Monda (Mondadori)

Nell’azzardo della roulette, il numero è tutto. Crediamo che il rebus del caso trovi una sua soluzione chiara e distinta quando la ruota rallenta il suo giro e si ferma, cioè quando la suspense si scioglie. L’entusiasmo del croupier è tutto nel lancio della pallina, ma è il numero che cambia il destino. E invece no, «il numero è nulla» afferma Antonio Monda dal titolo del suo ultimo romanzo. Il croupier, infatti, riprende la pallina prima che si fermi su un numero. Non importa quale, perché il vincitore è Ben Siegel, detto Bugsy – noto mafioso e capo del protagonista del romanzo – che raccoglie tutte le vincite senza che nessuno intervenga. Ed è lui che subito dopo le restituisce, insieme ai suoi cinquemila dollari, dicendo a voce alta al croupier: «Per lei e tutti coloro che lavorano in questo locale». Per questo il numero è nulla: non c’è numero che cambi le cose, è la legge del più forte.

L’ultimo romanzo di Antonio Monda – il nono di una serie di dieci previsti – si arrovella e si dipana su questo punto: è possibile cambiare? È possibile che accada qualcosa che cambi i destini? Per conoscere la risposta bisogna arrivare all’ultima pagina. Il lettore lo scoprirà. Ma a noi qui basta sapere che, pagina dopo pagina, assisteremo a un match di boxe. Il numero è nulla è storia di mafia e di morti ammazzati. Ma il sangue che scorre a fiumi, i pezzi di cervello che saltano per aria, e i volti ridotti a poltiglia sono lontani dalla pulp fiction. Il vero motore del racconto è una forma di grazia possibile, che vive – per citare Flannery O’Connor – «nel territorio del diavolo». È lo stesso protagonista (e voce narrante) che, a un certo punto, ricorda le parole paradossali di suo padre: «tutto è grazia, anche quello che ci sembra più ingiusto, orribile e mostruoso».

Il protagonista, che è la voce narrante, sa che c’è un momento sacro nella vita di un uomo: la morte: «Ogni volta ho continuato a immortalarne l’ultimo sguardo, non colpisco mai alle spalle, la morte è l’unico momento sacro della vita, e va affrontata guardandola negli occhi». Il romanzo non ci risparmia questi sguardi finali: «Ryan Flahertie aveva capito perfettamente che stavo per ammazzarlo», così inizia il romanzo, «e cercava di aggrapparsi a qualcosa di impossibile, solidarietà, forse, facevamo lo stesso mestiere». In un altro caso la vittima «ha atteso il colpo di pistola guardandomi negli occhi, l’orgoglio era più forte della paura». In quegli sguardi c’è la verità di una vita che giunge quasi postuma come una sorta di Spoon River.

Il numero è nulla è la storia di un’anima sensibile come un sismografo, che si gioca dentro il delitto, ma con sguardo sempre obliquo, alla ricerca di un qualcosa che dia peso, valore, ordine. Quindi, in definitiva, sfugge al male che compie. E il lettore non appena inorridisce prova subito pietà, quasi complicità. Potremmo definire il romanzo un «noir spirituale». Il protagonista è dentro una bolla di male ben definita e circoscritta da leggi, senza che però questa bolla esploda inquinando la coscienza, che resta lucida fino a offrirgli di sé stesso un quadro impietoso. Medita sulla vita come «sfida inutile», e sul fatto che gli unici momenti in cui riesce a sfuggire al vuoto sono quelli in cui prova l’illusione e «l’ebbrezza di dominare e possedere». Il senso tragico della vita è tradotto nel latino mandato a memoria dal padre: «Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris». Siamo polvere.

Non sa scegliere e lascia che la vita scelga per lui. Un inetto, dunque? Non è questa tutta la verità su di lui. È troppo profondo il suo rovello. A un certo punto, viene il dubbio che la sua sia più la riflessione di un monaco che quella di un assassino. O non ci sta dicendo Monda, forse, che proprio quella sua condizione criminale è un ossimoro, un paradosso? Che non sia il crimine, invece, la cifra grottesca di una condizione religiosa? Un indizio: l’appello al sacro sulla scena del delitto, dove Dio e morte sono comunque cifra del definitivo, come ci ha insegnato Bergman col suo Settimo Sigillo.

Bugsy agisce secondo la legge della selezione naturale. Il protagonista secondo quella della violenza e della grazia, e persino della pietas. Uccide per comando del suo capo uno della sua banda del quale è amico; ma colpisce la delicatezza con la quale gli occhi dell’assassino guardano i gesti felici dell’uomo stava preparando un buon pasto: «è stato quello il momento in cui gli ho sparato di spalle, non volevo vederlo negli occhi». Un cedimento rispetto alle sue regole, dunque. Bugsy è piatto, innamorato di sé e delle sue ambizioni. E dunque noioso. Il protagonista invece attraversa esaltazioni e voragini. E trascina con sé il lettore.

Monda fa convergere questo corpo a corpo con la vita nella passione per il ring. Memorabile la descrizione del combattimento tra Tony Canzoneri e Kid Chocolate. I pugili si guardano negli occhi come, del resto, il protagonista con la sua vittima. In quegli sguardi ci sono «le emozioni che definiscono ogni uomo: l’orgoglio, la paura, la volontà di dominare e umiliare». Ma persino in quel match il numero è nulla. Prevarranno denaro e potere sulla nobiltà delle regole del ring. E tutto questo sullo sfondo dei grattacieli di cemento e acciaio di New York che sono non soltanto una sfida, ma una «risposta al vuoto». Nel romanzo di Monda la città splende, incanta e trionfa invulnerabile, accogliente e inespugnabile, serena e trionfale, grandiosa e spettacolare, frenetica e sfacciata. E regala sogni, illusioni e vanità espresse con cripto-citazioni bibliche e leopardiane sull’«inutilità di tutto».

Forte è la ricerca di uno spazio utopico di purezza, che si apre nei ricordi del passato, dei genitori, della Sicilia, del padre Alfonso, morto senza sapere della vita criminale del figlio. La madre invece aveva capito. Ed era morta di crepacuore. Vive nei sentimenti: quello che lo lega al suo cane Teddy, e quello per Eimear, che lavora come maschera in un cinema vicino a Washington Square. Sarà l’unica a disarmare l’anima del protagonista, ed è con lei che per la prima volta sente il «peso» della pistola nelle sue tasche. Figlia di una donna ammalata che è stata lasciata sola dal marito, Eimear è di forza «quieta e tranquilla». Il protagonista confessa a se stesso la sensazione che lei «potesse rappresentare qualcosa di totalmente diverso rispetto a tutto quello che avevo vissuto sino a quel momento». È Beatrice nei panni di Virgilio, presenza di paradiso in bolge infernali, segno della grazia che attraversa il gorgo per amore: «Non immaginavo che si potesse amare e provare nello stesso tempo orrore, paura, sgomento e poi ancora amore», gli  scriverà. Le dita di Eimear, lunghe e affusolate, hanno stretto le mani con cui il protagonista aveva strangolato, accoltellato, torturato e sparato. Sarà Eimar ad accompagnarlo verso un momento di svelamento inatteso e definitivo.

Curioso che lavori in un cinema, il luogo in sui si proiettano immagini di fiction, e in questo caso addirittura per un pubblico assente. Monda sceglie come copertina una splendida tela di Hopper, Cinema a New York che sposta la prospettiva dal palco a una maschera, appunto. Il senso, però, ce lo svela lo stesso protagonista quando afferma: «Amo le sale vuote delle matinée, con lo schermo enorme che proietta una storia che non vede nessuno. È una creazione che acquisisce la forza della vita stessa, forse anche la sostanza».

Ma in realtà è Tara, la mamma di Eimear che, dalla sua sedia a rotelle, con la sua gentilezza, turba il protagonista fino a disarmarlo: «Ero impreparato a una situazione del genere, uccidere è molto più semplice che essere gentili», confessa. E forse proprio questo è il segreto della salvezza: non sentirsi mai pronti.