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 2023  marzo 06 Lunedì calendario

I piemontesi e la Sardegna

Un Paese bellissimo ma nato male: non riesce a correggersi, a far i conti con la sua storia; il più ingiusto con i giovani e le donne (la più discriminata del mondo sviluppato è italiana, meridionale, disoccupata, single e madre); ha il primato mondiale del più grave e duraturo divario fra due aree, il Nord e il Sud, e invece di risanarlo (come in Germania, fra Est e Ovest, in Spagna e altrove), attribuisce a una parte il merito del più e all’altra la colpa del meno, pur se questo è il risultato di come l’Italia è gestita da 162 anni. Francesco Saverio Nitti, poi capo di governo, nel 1900, in “Nord e Sud”, denuncia lo squilibrio della spesa pubblica (i soldi di tutti gli italiani): dei 458 milioni per le bonifiche, meno di tre a Sud; e così per tutto il resto, ma le tasse erano studiate per esser più alte nel Mezzogiorno; e oggi idem: nella sola Lombardia circolano più treni che in tutte le regioni del Sud messe insieme e per le famiglie in difficoltà lo Stato spende 583 euro pro-capite a Bolzano e 6 a Vibo Valentia.
Dopo un’elaborazione a singhiozzo di trent’anni, nel 2010 pubblicai “Terroni” (e poi un’altra decina scarsa di libri), non sospettando che potesse divenire, su quei temi, il più venduto di sempre. Dopo 13 anni, “Il nuovo terroni”, perché in così breve tempo, politicamente e per diffusione popolare delle ragioni della Questione meridionale, son accadute cose mai viste nel secolo e mezzo precedente; e c’era una domanda inevasa: come riuscì lo stato sabaudo, che era la metà delle Due Sicilie e in dissesto economico, a “ingoiare” una preda tanto più grande?
La risposta è la Sardegna: i Savoia la ottengono nel 1720, con il trattato dell’Aia; e si vara il “Piano per la colonizzazione” che riduce l’isola a “fattoria del Piemonte”, con ferocia (dal volume della “Storia d’Italia” di Einaudi a “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”, del professor Francesco Casula, se ne ha un’idea); tutto quel che vale qualcosa è sottratto ai sardi (il commercio da e per l’isola sarà dato in esclusiva a speculatori genovesi soci di Cavour; su 40 concessioni minerarie, solo una a un sardo) e con le leggi “delle chiudende” e della “proprietà perfetta” si consentirà alla classe dirigente locale di appropriarsi delle terre pubbliche. Le proteste represse con stati d’assedio, plotoni di esecuzione itineranti, retate come per i mille di Nuoro, nella notte della “Caccia grossa”. Nei testi dell’epoca i sardi sono citati con nomi di animali. Sorse un ciclo di studi per capire e correggere la condizione di svantaggio, e prese il nome di “Questione Sarda”; quando quei metodi furono trasferiti nel Mezzogiorno, la “Questione” diventò “Meridionale”.
Eppure, gli italiani, per il diritto statale e internazionale, sono tutti sardi, spiega in “Italia. Il grande inganno 1861-2011”, il professor Francesco Cesare Casula (omonimo), già nel direttivo della Società degli storici italiani, a capo dell’Istituto di Storia dell’Europa mediterranea (Consiglio nazionale delle ricerche), consulente della Presidenza della Repubblica, con Francesco Cossiga: papa Bonifacio VIII crea il Regno di Sardegna nel 1297 e lo cede ai re d’Aragona, che iniziano la guerra per toglierlo ai pisani e ai sovrani del Giudicato d’Arborea 27 anni dopo, nel 1324. Quindi, lo stato “Regno di Sardegna” nasce quell’anno, perché perfeziona il suo diritto, disponendo del territorio su cui esercitarlo. E quella è l’origine dello stato “Italia”, perché quel diritto si estese ai possedimenti dei Savoia e, tramite loro, al resto della Penisola (Vittorio Emanuele II rimase II, non I d’Italia; nel dibattito parlamentare sull’elezione di Giuseppe Mazzini a Messina, nel 1866, il capo del governo disse che non si era fatta l’Italia, ma allargato il Piemonte, scrive il professor Pasquale Amato in “Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi”).
Quando invase il Regno delle Due Sicilie, per ridurlo a colonia (come raccontano da Antonio Gramsci a Nicola Zitara), l’esercito sabaudo aveva 140 anni di tecniche sperimentate in Sardegna. Nel mio libro cito una ricerca in corso di pubblicazione: le “morti anomale”, a Sud furono più di mezzo milione; già in “Carnefici”, riportai la relazione al re del ministro Giovanni Manna, sul censimento del 1861, in cui si dice che, per la guerra, “nelle nuove provincie che abbiamo appena conquistato”, si erano contate 458mila persone in meno; centinaia di migliaia i carcerati (ancora dieci anni dopo: rapporto del ministro di Rudinì), quasi centomila i deportati, documenta il professor Giuseppe Gangemi, università di Padova, il quale (“In punta di baionetta”), dimostra che i militari borbonici morti in caserme e campi di concentramento (detti: di rieducazione), fra cui il forte di Fenestrelle, furono almeno 16mila, non solo 4, come sostiene il professor Alessandro Barbero (“I prigionieri dei Savoia”). Per scoprirlo, Gangemi, docente di Metodologia della ricerca, all’Archivio di stato di Torino ha usato anche gli stessi fascicoli e il metodo “a campione” di Barbero. La direzione dell’Archivio emise una regola all’istante che bloccò le indagini di Gangemi, costrette a un’altra direzione, inaspettatamente così fruttuosa, che il prof, nel suo libro, ironicamente ringrazia per l’involontario aiuto.
Nel 1946, per l’Assemblea delle Nazioni Unite, tutto quel che fu fatto al Sud per unificare l’Italia, divenne reato che può compiere solo uno stato e si chiama genocidio. In Italia non si può dire, né in Turchia si può citare quello degli armeni. E ora, non potendo più negare, si chiede di dimenticare, per non compromettere la coesione di un Paese così poco unito. L’invito venne, tre anni fa, da Corrado Augias e Paolo Mieli: suo “La terapia dell’oblio”. Risposi con “Contro l’oblio”: non lo si chiede a ebrei, nativi d’America, neri deportati schiavi dall’Africa, armeni..., perché solo ai terroni?
Il nostro Paese è nato nel sangue, come gli altri (dagli Stati Uniti al Giappone) e negli stessi anni. Ma gli altri se la raccontano. Noi no.
Il professor Giovanni Capecchi, docente di letteratura italiana all’università per stranieri di Perugia, mostra che la nostra letteratura, “unita nell’Italia divisa, diviene divisa una volta raggiunta l’unificazione nazionale: a partire dai primi decenni post-unitari (e fino ai nostri giorni) si assiste a una ’secessione’ letteraria tra meridione e settentrione”. Come dire: l’unità, desiderio comune, spiacque quando mostrò il suo volto.
Restiamo il Paese più bello del mondo. Da unire.