il Giornale, 6 marzo 2023
Ritratto al veleno di Dario Franceschini
Il banco, a poker, non perde mai. E come diceva un vecchio notabile piddino: nel partito democratico il banco (sinonimi: scranno, stallo, scanno, seggio, per estensione sedia, «seggia», poltrona) è dove siede Dario Franceschini.
Kingmaker del cattoprogressismo della Seconda Repubblica e mezzo (quasi Terza), vero Frank Underwood dell’Area Dem, un vasto ducato ideologico che dal movimento dei Cristiano sociali, poco più che comunistelli di sacrestia, si estende fino ai confini dell’esarcato Cinque Stelle, Dario Franceschini con Elly Schlein, vinta per interposta person*, si è aggiudicato la quinta edizione delle primarie del Pd, su sei celebrate. Le uniche che ha perso sono quelle in cui era candidato lui.
Candidato ab aeterno, pensoso e felpato, ante ministrum natum, politico di rara scaltrezza e scrittore politicamente impegnato, già uno dei ragazzi di Zaccagnini, da cui il suo andare a zig Zac per i sentieri parlamentari: prima moroteo, demitiano poi della corrente di Martinazzoli, quindi prodiano, dalemiano, veltroniano, fedelissimo di Bersani, Gran Elettore di Enrico Letta e poi suo Gran Traditore (immortale la vignetta di Osho: «Giuda gli spiccia casa») quindi rottamatore renziano, zingarettiano convinto, quando infine è stato il momento di scegliere tra Bonaccini e la Schlein, ha mandato avanti la moglie, Michela Di Biase. Ma dietro Michela Di Biase c’è sempre il marito, cioè lui.
Fu Matteo Renzi, uomo che di machiavellismi se ne intende, a dire: «Se volete sapere chi vincerà il congresso guardate con chi sta Franceschini».
Stella dell’orsa politica post-democristiana, dalla Dc ai Popolari, dalla Margherita al Pd, teorico di un sano populismo in salsa centrista, ora promotore di una innaturale unione civile con la sinistra radicale di potere e fluidità - il cattogaysmo come progetto politico - Franceschini è tutto e niente. Le idee non sono mai state il suo forte. Ma sa sposare quelle degli altri al momento giusto. Dario, dicono gli amici, è ossessionato dal potere. E dà il peggio di sé quando non ce l’ha.
Politico freddo, razionale, mimetico - bisogna riconoscere che è bravissimo: sparisce quando il Pd va male, riappare quando qualcuno vince distaccato, andreottiano, sintetico, da cui il soprannome «lapiDario», Franceschini è stato Ministro per i beni e le attività culturali un posto di manovra strategico - in quattro governi diversi, Renzi, Gentiloni, Conte e persino Draghi che lo mal sopportava, per un periodo complessivo di sette anni, un record. LeggenDario. La cultura come se fosse cosa sua.
Romano per questioni di Palazzo ma inestirpabile dalla sua Ferrara dalla contrada Santa Maria in Vado, che nello stemma ha un unicorno, prefigurazione delle prossime battaglie Lgbtq (a proposito: auguri) al liceo Roiti e la laurea in Giurisprudenza: la buona borghesia del Delta padano, le inutili lezioni di sassofono, i cineforum coi film d’essai, Cosmè Tura e la salama da sugo «Ciuffolino», così soprannominato per il vezzoso capello ribelle, è il vero intellettuale di riferimento del mondo salottiero, cinematografaro, presenzialista, teatrale, televisivo e festivaliero della sinistra d’egemonia e di prosecchino.
Dario, insegnami a cadere sempre in piedi.
Eminenza grigia e cuore rosso, 64 anni di cui più o meno cinquanta in politica, Franceschini un bonzo inamovibile per Giuliano Ferrara, un enigma per tutti i leader del Pd come ogni buon cattolico ha abbondato coi matrimoni. Due. La prima moglie era un’insegnante, ferrarese; dopodiché ha conosciuto Michela Di Biase, che se non ci fosse il MeToo diremmo che era la bonazza del Partito, tanto carina quanto romana «coatta» non si può dire e un accento che nemmeno alla trattoria Da Nerone, il cui massimo pensiero è quello consegnato tempo fa a Vanity Fair, e a chi se no? «C’è bisogno di riflettere, di approfondire, di tornare a studiare. E c’è bisogno di più donne, in politica ma anche nelle aziende». I Franceschinez: un partito-azienda.
Va mo là, fògat! Da ferrarese Franceschini ha aiutato in maniera munifica il Museo dell’ebraismo di Ferrara - strano - e ha disinnescato gli scontri in campo culturale con Sgarbi-fratello affidando i suoi romanzi (e per alcuni anni anche la figlia, come ufficio stampa) alla Sgarbi-sorella, prima Bompiani poi La nave di Teseo, libri di solito recensiti dal Corriere della sera come se fosse Balzac (ma nel 2007 vinse in Francia il Premier Roman di Chambery, battendo in finale Walter Veltroni, tiè!).
Tifosissimo della Spal ars et labor è anche il suo motto - presuntuoso, «il pavone estense» si sente investito in maniera messianica del ruolo di ministro della Cultura. Ama ripetere di quando Barack Obama gli confidò con invidia che lui faceva «il più bel mestiere del mondo». E in fondo l’Italia è una piccola Ferrara: il Castello, il palio, i diamanti, la Signoria, il Caffè Folchini, il pasticcio di maccheroni in pasta frolla, i pettegolezzi, intrighi, familismo, coltelli e l’attitudine di Andar a pampògn...
Però, dài. Si può scherzare su tutto, ma Franceschini è stato il nostro miglior ministro della cultura. Televisiva. Al netto della piattaforma per lo streaming a pagamento di eventi e spettacoli «ItsArt», la Netflix della cultura: un disastro. Al netto di «Very Bello», la piattaforma turistica pensata per accompagnare l’Expo 2015 costata migliaia di euro e morta in culla. Al netto di «Italia.it», il sito di promozione del Belpaese lanciato e poi sparito dietro il caos dell’Enit. Al netto delle criticità della «18app», il bonus per comprare libri che gli studenti scambiavano con qualsiasi altra cosa. Al netto di tutto ciò e la nomina dei direttori di museo stranieri forse è stata davvero una debolezza da provinciali Franceschini ha dimostrato non solo che con la cultura si mangia, ma ci si può abbuffare. Certo, magari scontentando qualche purista dei beni culturali à la Tomaso Montanari, ai quali la sua visione manageriale e turistica non piace.
Cose che piacciono molto a Dario Franceschini: stare al governo, i «franceschiniani», ma da pauperista anche i francescani, i propri romanzi, prolungare la «esse» a fischio («Bisogna stare attenti ai fassssisti!»), mettere nelle cine-commissioni qualcuno che sia di Ferrara anche se non sa di cinema, magari Daria Bignardi; portare la barba fra il martire risorgimentale e un fratello Karamàzov, le tecniche della democristianità, la Fortana dell’Emilia Frizzante, ghiacciata.
Cose che non piacciono a Dario Franceschini: stare all’opposizione, Tomaso Montanari, i romanzi di Veltroni, sbilanciarsi (su qualsiasi cosa), perdere la corsa al Quirinale («Fat dar in tal cul, brut aldamar!»), chi dice che al Ministero faceva tutto Salvo Nastasi, e i libri di Romolo Bugaro, in particolare Bea vita a Nordest, dove si legge: «Chi sono Franceschini e Bersani? Gli amici degli impiegati statali stronzi, che non accettano una nota cinque secondi dopo mezzogiorno. I difensori dei marocchini strapieni di birra che stazionano sotto all’ufficio e vomitano dappertutto. Eccola qua, la sinistra».
E per il resto, hanno ragione tutti coloro che hanno votato Elly Schlein. Franceschini è proprio l’uomo giusto per iniziare una nuova storia.