Sette, 14 ottobre 2022
Intervista a Orlando Figes - su "Storia della Russia. Storia e potere da Vladimir il Grande a Vladimir Putin" (Mondadori)
In una fredda e grigia giornata di novembre del 2016, presso le mura del Cremlino, Vladimir Putin alla presenza delle autorità religiose, svela una statua di bronzo alta 20 metri dedicata a Vladimir, il grande principe della Rus’ di Kiev. «Ho insegnato la storia della Russia per 35 anni. Ma dal 2012, a mano a mano che Putin si serviva della leggenda della sua fondazione per giustificare le pretese sull’Ucraina, ho sentito l’urgenza di colmare la distanza tra ciò che io insegnavo e la percezione che i russi hanno di sé stessi. In questo nuovo libro che ho scritto qui in Umbria durante il lockdown, The Story of Russia (in Italia uscirà per Mondadori), ho voluto enfatizzare l’idea che scorre lungo la storia russa, o meglio la sua versione mitologica». Orlando Figes, lo storico inglese membro della Royal Society of Literature i cui libri sono stati tradotti in trenta lingue, sin dal titolo vuole chiarire il suo obiettivo. Non history, bensì story, ovvero la narrazione espressa dai leader nel corso dei secoli per legittimare la propria agenda politica. «Nessun Paese ha reimmaginato il proprio passato con così tanta frequenza… Il saggio che Putin ha scritto nel luglio del 2021 può essere considerato la sua giustificazione per l’invasione».
Nella versione russa, scrive Figes, il principe di Kiev convertitosi al cristianesimo in Crimea nel 988 e sposo di Anna, sorella dell’imperatore di Bisanzio, aveva riunito e difeso le terre di tre Paesi che oggi sono la Russia, la Bielorussia e l’Ucraina. Erano una sola nazione, un solo popolo, condividevano i principi cristiani, la stessa lingua e la stessa cultura, insomma erano il fondamento dell’impero russo (lo stesso Ivan IV, il Terribile, sfruttò questa leggenda quando si fece nominare zar) e dell’Unione Sovietica: in pratica l’Ucraina in sé e per sé dal punto di vista di Mosca non era mai esistita. Ma anche gli ucraini hanno la loro statua del gran principe Volodymyr, come lo chiamano loro, un monumento che risale al 1853 quando facevano parte dell’Impero russo, alto 19 metri (uno in meno del colosso russo) collocato sulle rive del Dnepr a Kiev: dal 1991, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, è considerato un simbolo dell’indipendenza del Paese dalla Russia oltre che della loro antica vocazione europea. Per questo la celebrazione russa del 2016 li aveva fatti infuriare.
«L’altro assunto storico agitato da Mosca», continua Figes, «è che solo durante l’Urss all’Ucraina era riconosciuta la dignità di uno Stato, e quando l’Unione Sovietica si è dissolta, Kiev se n’è andata con troppo territorio: le terre che oggi i russi reclamano sono le conquiste di Caterina la Grande. È un argomento condiviso da molti, anche Solzhenitsyn la pensava così, e tuttavia ridicolo perché i confini dell’Ucraina sono stati riconosciuti internazionalmente nel 1991, Russia inclusa. Gli uomini che oggi si trovano ai vertici del potere sono militari o uomini del KGB che hanno vissuto la tragedia della fine dell’Urss e che si sono sentiti pugnalati dall’Ucraina. I siloviki ne riscrivono la mappa per vendetta».
Ma come succede che questa iniziativa così feroce concepita nelle sfere più alte sia condivisa da ampi strati della popolazione?
«Perché la retorica nella quale è presentata la storia affascina l’uomo comune per varie ragioni: i russi sono stati educati in una visione imperiale della Russia secondo la quale loro sono i fratelli maggiori delle nazioni slave e gli ucraini sono i fratelli minori, inferiori; e poi la propaganda ha fornito sostegno a quell’idea che è parte della memoria nazionale: se l’Ucraina rompe i legami con il fratello maggiore, entra nella sfera occidentale e assume un significato anti-russo. Questo concetto fa presa perché viene tramandato dai libri di storia: la Russia, vi si legge, non inizia guerre aggressive ma è attaccata dall’Occidente e per questo ha bisogno di un leader forte e di un forte Stato. È un’idea che pervade l’intera storia della Russia. Si pensi ad Alexander Nevsky che nel XIII secolo respinge i cavalieri teutonici. Quando fu necessario mobilitare contro la Germania durante la II Guerra mondiale, il film di Eisenstein sull’eroe fu mostrato a decine di milioni di persone. Nevsky, come il principe Vladimir, ha lo status di santo nella chiesa ortodossa. Inoltre i russi vivono nella consapevolezza di aver salvato l’Europa dai mongoli, da Napoleone, da Hitler (per loro la guerra inizia nel ’41, quando furono attaccati e non nel ’39 quando strinsero il patto con i nazisti. E se adesso affermi il contrario finisci in prigione). E ritengono che l’Occidente non gli sia abbastanza grato per questi sacrifici».
Questo sostegno popolare durerà anche dopo la mobilitazione parziale?
«Per mesi hanno reclutato tra le regioni più povere. Ora è più complicato. I russi comunque non possono vincere la guerra sul terreno: non hanno la logistica, non hanno abbastanza sostegno tra la popolazione, i soldati inviati al fronte sono mal equipaggiati, mal addestrati, poco o per nulla motivati. Più insisteranno con gli attacchi di terra più si esporranno all’ammutinamento. Gli ucraini combattono davvero bene, hanno il morale alto e qualcosa per cui combattere. Putin ha creato l’unità nazionale in Ucraina».
Quindi l’esito della guerra sarà sfavorevole a Mosca?
«C’è un grande ma. Questa è una guerra ibrida: finanziaria, economica, cibernetica…Penso che Putin abbia due grandi armi che non ha ancora sfruttato a pieno. Per prima cosa può causare una grande crisi economica cessando di vendere il carburante: l’Occidente può resistere sei mesi, ma cosa succederà se la guerra dovesse durare due o tre anni? Quanto coesi saranno i Paesi dell’Europa? E l’altra arma sono i rifugiati. I russi vogliono usare i missili a lungo raggio per distruggere le infrastrutture delle grandi città. La mancanza di acqua e elettricità causerebbe un esodo che la propaganda russa stima di 20 milioni di persone. È un’arma molto potente che Putin ha annunciato e a cui non è stata prestata la dovuta attenzione».
Ritiene che ci possa essere una sollevazione popolare a Mosca?
«Potrebbe succedere, ma non me lo aspetto. Alla fine del libro però dico che se anche Putin perdesse, il regime sopravviverebbe. La rivoluzione potrebbe avere successo solo nel caso in cui l’esercito si ammutinasse e cadesse a pezzi. Tuttavia penso che il regime abbia abbastanza soldi per pagare bene le forze repressive (a differenza della Bielorussia dove sono demoralizzate e pagate male). Al momento il sovvertimento del sistema è un wishful thinking».
Che cosa l’Occidente non ha capito della Russia? E se l’avesse capito avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi?
«È il motivo per cui ho scritto questo ultimo libro. Non c’è una giustificazione per la guerra e non credo si debba biasimare la Nato per gli errori. Ma dal 1991 la Russia è stata emarginata. Anche Clinton trattava la Russia, attraverso Boris Eltsin, senza rispetto, come un potere debole che non era necessario consultare. Negli Anni 90 l’Occidente non doveva fare molta fatica per tenersi la Russia dalla propria parte. Bisognava ascoltarli, capire da dove arrivavano e perché si sono sentiti traditi dall’espansione della Nato. I nuovi membri avevano il diritto di aderirvi ma l’espansione fu attuata senza condizioni chiare e trasparenti che avrebbero dato alla Russia le garanzie di sicurezza che aveva bisogno. Adesso al Cremlino non ci sono semplicemente degli slavofili, ovvero chi sostiene che non si debbano adottare i valori o perseguire i traguardi dell’Occidente, ma slavofili militari per i quali l’Occidente è ostile ai loro interessi».
«Per quanto mi riguarda come un dittatore brutale che ha distrutto tutto ciò che di buono c’era in Russia. Per quanto riguarda i libri russi è ancora da decidersi. C’è un’ottima osservazione nel libro Il primo cerchio di Solzhenitsyn: per quanti crimini un leader possa commettere, dice, (e lui si riferisce a Stalin) la gente dimenticherà e sarà pronta a fornirne una buona interpretazione se vince. E penso che sia vero. Se Putin riuscirà, magari con una conquista parziale dei territori, a rivendicare una sorta di vittoria anche a costo di un numero eccezionale di vittime e dell’isolamento dal mondo, allora la versione russa della storia gli sarà benevola».