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 2023  marzo 05 Domenica calendario

Le donne e la linguistica italiana

È passato poco più di un mese dalla scomparsa di Bice Mortara Garavelli, che alla fine di gennaio la sua Torino e l’Italia hanno salutato come la Signora della retorica, autrice di uno dei trattati più fortunati e solidi nell’insegnamento universitario come in quello scolastico. È il Manuale di retorica, appunto, uscito per la prima volta nel 1988 da Bompiani e più tardi accompagnato da una Prima lezione di retorica (Laterza, 2011) e da un Manualetto di figure retoriche (Il parlar figurato, Laterza 2010) che rappresentano le sintesi più aggiornate e più tipicamente italiane in un campo nel quale s’incontrano dottrina dei rètori antichi e linguistica moderna, studi letterari e teorie della comunicazione. Sono libri che sullo scaffale s’affiancano ad altri della stessa autrice, forse meno noti al grande pubblico (con l’eccezione di un pregevole Prontuario di punteggiatura, Laterza 2003: uno dei pochi libri veramente intelligenti usciti su questo tema prima della sua recente riscoperta da parte della linguistica), come quelli sul rapporto tra lingua e diritto – un tema cui Mortara Garavelli dedicò un volume einaudiano nel 2001 (Le parole e la giustizia. Divagazioni retoriche e linguistiche su testi giuridici italiani).
La retorica è in effetti il più noto ma non certo l’unico dominio cui si applicò Mortara Garavelli, una delle voci più autorevoli della Storia della lingua italiana nel Novecento. Una voce femminile, e non per caso, in una disciplina in cui – forse perché giovane, cioè di fondazione accademica relativamente recente – il contributo delle donne è stato maggiore e più qualificato che in vari altri settori vicini. Già in pieno Novecento, le studiose di filologia e linguistica italiana si sono distinte come figure centrali negli studi, pur in un mondo nel quale la loro presenza era quantitativamente minoritaria (anzi, minima!) rispetto a quella dei colleghi maschi.
Così, nell’ideale galleria degli studi di storia della lingua italiana – una galleria ancora breve, se ad aprirla idealmente è un capostipite, Bruno Migliorini, nato nel 1896 – le donne figurano in posizioni di assoluto rilievo.
Di un anno più anziana di Mortara Garavelli era Maria Luisa Altieri Biagi (1930-2017), per decenni titolare della cattedra di Storia della lingua italiana dell’università più antica del mondo, Bologna. A lei si deve non solo la formazione di numerose e folte generazioni d’insegnanti e di studiosi passati per l’Alma mater, ma anche vari lavori fondamentali su autori come Galileo Galilei (che per la lingua italiana non conta meno che per la fisica o l’astronomia), e in generale sull’italiano della scienza (agli Scienziati del Seicento s’intitola un volume dei classici Ricciardi da lei curato, nel 1980): in barba al ridicolo pregiudizio per cui appunto le scienze matematiche e naturali o quelle che oggi si raccolgono sotto l’odioso e malformato acronimo STEM sarebbero settori poco o mal frequentati dalle donne.
Risalendo ancora nella breve storia degli studi linguistici italiani, altre due figure quasi coetanee illustrano bene il contributo femminile in questo campo. Una è Maria Corti (1915-2002), forse la prima donna ad aver insegnato Storia della lingua italiana (dal 1955, a Pavia, dapprima come incaricata, poi, nove anni dopo, come ordinaria). Figura chiave della letteratura, della linguistica, della filologia e della semiologia nell’Italia del pieno e del maturo Novecento, Corti influenzò con la sua felicità mentale (è un suo bellissimo titolo), la cultura del suo tempo, dando contributi fondamentali alla conoscenza della letteratura medievale come di quella contemporanea. Dalla sintassi poetica avanti lo Stilnovo fino allo studio delle carte di autori contemporanei, Corti divenne – ed è ancora – un punto di riferimento, né solo per il ristretto e noioso ambito degli accademici: di lei come scrittrice, come donna e anche come militante Mario Andreose ha tracciato un suggestivo ritratto in queste pagine giusto un anno fa.
Completamente diversa da lei quanto a personalità, a estrazione e – in un certo senso – anche quanto a traiettoria culturale è l’altra: Franca Ageno (1913-1995) che, come usava allora, da un certo punto in poi si firmò sempre anteponendo il cognome del marito, un Brambilla, al proprio. Fu giusto in seguito al matrimonio che Ageno dovette scegliere tra la prosecuzione della sua collaborazione con l’Accademia della Crusca – iniziata dopo avervi vinto un concorso a ventisei anni – e il trasloco a Milano, dove risiedeva il consorte. Dopo aver tentato una mediazione con l’Accademia, per cercar di lavorare a distanza, Ageno scelse (o dovette scegliere) il trasloco. E la rinuncia al posto. Solo nel 1958 le si schiuderà la possibilità d’insegnare Storia della lingua italiana alla Cattolica, e a quell’epoca il nome di Ageno è ormai ben noto negli studi, visto che tra il 1950 e il 1962 era comparso ben diciotto volte negl’indici dei prestigiosi «Studi di filologia italiana». Nel 1952 era uscita la sua fondamentale edizione di Jacopone da Todi, tre anni dopo quella di Luigi Pulci. E agli anni Sessanta – a partire dai quali insegnerà Letteratura italiana a Parma – risale un capolavoro come Il verbo nell’italiano antico (Ricciardi, 1960).
La stessa Crusca cui aveva dovuto rinunciare come collaboratrice accoglierà Franca Brambilla Ageno come accademica nel 1970. Non era la prima donna ad entrarvi, se già nell’Ottocento ben due erano state le socie di quel sodalizio, in un mondo d’eruditi e di studiosi a schiacciante dominanza maschile. Del resto, all’alba del ventunesimo secolo proprio la Crusca – l’accademia della lingua italiana – è stata una delle prime ad avere una Presidente (Nicoletta Maraschio), negli stessi anni in cui due furono le donne alla guida dell’associazione che raduna le storiche e gli storici della lingua italiana (Silvia Morgana e Rita Librandi). Un bilancio che non tutte le discipline, neanche in ambito umanistico, possono forse trarre nell’Italia del 2023.