Robinson, 4 marzo 2023
Biografia di Luciano Violante raccontata da lui stesso
Mentre vado all’appuntamento con Luciano Violante mi torna alla mente una frasetta di Montaigne: «La parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che ascolta». E penso che nel perfetto equilibrio tra due persone si depositino secoli di buona civilizzazione. La stessa che, più o meno dal Cinquecento, ha faticosamente attraversato l’Europa, fino a giungere a quella forma imperfetta e fragile che chiamiamo democrazia. Sulla democrazia, sui suoi costi, Violante ha scritto un libello che sembra adatto a contrastare questi tempi sguaiatamente tumultuosi e refrattari all’ascolto dell’altro. Violante mi riceve alla Fondazione Leonardo dove riveste la carica di presidente. Mi appare come una figura schiva e determinata. Sembra di rivedere in lui alcune cose interessanti che il Novecento ha faticosamente realizzato e che il nuovo secolo ha smarrito. A un certo punto, della conversazione, gli giro il pensiero di Montaigne. Ha un momento di pausa, in quel parlare sommesso e veloce, e poi mi dice che in modo più banale il compagno e giudice costituzionalista Ugo Spagnoli gliela tradusse così: «Non puoi pensare che i tuoi avversari abbiano sempre torto».
Dal suo libro “La democrazia non è gratis”(edito da Marsilio) sembra chiaro che questa forma di governo sia in netta minoranza rispetto al resto del mondo.
«Negli ultimi decenni la democrazia ha fronteggiato più di un nemico. Attualmente i sistemi democratici sono poco più del 20 per cento mentre proliferano i sistemi autoritari. Di solito non ci si scandalizza più di tanto davanti a questi ultimi. Perché si pensa che essendo il frutto di normali elezioni sia il popolo a sceglierli».
Lei chiama queste decisioni popolari tirannie elettive. L’esempio più eclatante fu Hitler che andò al
potere dopo normali elezioni.
«Quell’esperienza, di cui conosciamo le tragiche conseguenze, fu determinata non da un colpo di stato ma da regolari elezioni. Segno che la democrazia è un bene che va protetto».
Anche da se stessa?
«In un certo senso anche da se stessa. È molto facile che quel bene, una volta che saltino le intermediazioni, sia oggetto di radicali manipolazioni».
Ha in mente figure recenti?
«I casi più prossimi sono quelli di Trump e Bolsonaro, in Europa Orbán, in Turchia Erdogan e poi c’è Putin.
Tutti costoro, in modi diversi ma convergenti, rifiutano le regole del gioco democratico».
Che cosa li rende popolari?
«La loro capacità di decisione, agevolata dal fatto che le procedure democratiche sono spesso lente, le discussioni infinite, i compromessi necessari. Davanti alla criticità sociale, un sistema autoritario è in grado di reagire molto più rapidamente. Spesso semplificando i problemi.
Offrendo soluzioni che in realtà non sono tali. In società fortemente complesse e conflittuali come le nostre l’autoritarismo dà l’impressione che possa garantire soluzioni buone per il presente e per il futuro. Non scioglie pazientemente i nodi. Li taglia».
Come fa una democrazia, per giunta minoritaria, a difendersi?
«La sola strada efficacemente percorribile è quella dei doveri. Un punto per me essenziale se si vuole ripensare un’etica della cittadinanza. Senza il principio del dovere una società è destinata prima o poi a frantumarsi. Di qui l’idea che i diritti sono solo una parte del discorso pubblico».
Stefano Rodotà, glielo ricordo per contrasto, scrisse “Il diritto di avere diritti”.
«Lo ricordo bene, al punto che gli contrapposi Il dovere di avere doveri. Io e Rodotà venivamo da esperienze completamente diverse e quei due libri, su cui ci confrontammo anche aspramente in un dibattito pubblico, ne erano un po’ la rappresentazione plastica».
Ammetterà che i diritti liberano la persona, i doveri la vincolano.
«Si può immaginare una società fondata solo sui diritti?».
L’interrogativo fu posto e risolto con la Rivoluzione Francese.
«Due secoli e mezzo fa uscire da un regime fondato sui privilegi di pochi e sull’oppressione di larga parte della popolazione portò alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini. Fu una conquista enorme. Ma può, ripeto, una democrazia oggi basarsi solo sui diritti? Può in altri termini non tener conto del fatto che una democrazia non possiamo averla gratis».
Quali sono i costi di una democrazia?
«Nascono dalla consapevolezza, innanzitutto, che solo rinunciando ad alcune aspirazioni individuali è possibile rendere salda e forte la democrazia».
Sta invocando il principio di responsabilità.
«Metterei le cose in questi termini: i diritti oggigiorno sono soprattutto diritti individuali o corporativi. Non tengono conto, se non in minima parte, del contesto generale. Mentre il dovere non può prescindere dall’altro. Il dovere ha sempre di fronte il destino della comunità. Il diritto non è l’altra faccia del dovere. Si collocano su due piani distinti».
Quando tramonta l’età dei doveri?
«Con la fine dell’intermediazione classica, un tempo incarnata dalla scuola, dai partiti, dal sindacato, dalla famiglia, dalla stessa Chiesa. Non c’è più un’autorità morale che oltre ai diritti metta al centro il discorso sui doveri».
Quei corpi intermedi favorivano la convivenza con gli altri. Nelle odierne analisi prevale il concetto di disintermediazione.
«L’intermediazione non è sparita. Oggi è praticata dalle grandi piattaforme. Google, Amazon, Microsoft si propongono come i nuovi soggetti della mediazione. Si è passati così dal potere politico e sociale, più o meno diffuso, a forme di oligarchia digitale».
Un’oligarchia difficilmente controllabile, lei dice.
«Composta da gruppi intrusivi, i quali entrano nelle nostre vite quotidiane e le condizionano in modo più pervasivo dei tradizionali mediatori. È un cambio radicale di scena difficilmente immaginabile nel secolo scorso».
Il ’900 ha solo posto le premesse.
«Un secolo complesso più che breve».
Nel 1966 lei entra in magistratura. Era quello che voleva fare?
«In realtà, il mio sogno era diventare architetto. Ma per giurisprudenza bastavano quattro anni di studio.
Volevo laurearmi in fretta ed emanciparmi economicamente».
Suo padre cosa faceva?
«Era un giornalista comunista e questa combinazione ha influito sui destini familiari».
In che senso?
«Proveniva da una famiglia antifascista. Un fratello nella resistenza fu catturato e condotto a Mauthausen; un altro fratello restò ucciso in uno scontro con una banda fascista. Mia nonna implorò mio padre di andare via dall’Italia e lui si stabilì in Etiopia. Dove aprì un’agenzia giornalistica.
Sposò mia madre per procura. Lui pugliese lei di Milano.
Quando lei giunse ad Asmara lui si dimenticò di andare a prenderla all’aeroporto. Questo per dire quanto mio padre fosse svagato. Sono nato nel 1941, in un campo di concentramento dove i miei genitori erano stati reclusi».
Immagino che non abbia ricordi di quel periodo.
«Conservo solo dei rari accenni che fece mia madre. Una volta mi raccontò di essersi rivolta al comandante del campo perché le procurasse una culla. La sola cosa che le fu messa a disposizione era un comodino. In pratica dormivo dentro un tiretto aperto. Poi nel 1944 gli inglesi lasciarono partire le donne e i bambini. Con mia madre fummo rimpatriati su di una nave bianca. Era una delle imbarcazioni che la Croce Rossa aveva messo a disposizione dei profughi e prigionieri. Sbarcammo a Napoli e da lì arrivammo a Rutigliano, non distante da Bari, dove vivevano i genitori di mio padre. Per loro fu una sorpresa. Anche in quella occasione papà si era dimenticato di avvertirli che era sposato e con un figlio».
Suo padre restò in Africa?
«Rimase prigioniero degli inglesi e ci raggiunse solo nel 1946. Posso dire di averlo conosciuto quando avevo 5 anni».
È mai tornato in Etiopia?
«No, per me è stato solo un luogo estraneo e poi, sinceramente, provavo un certo imbarazzo all’idea che potessi tornare in un posto dove gli italiani avevano partecipato al banchetto del colonialismo».
È come se lei abbia voluto rimuovere quel periodo.
«Niente di volontario e poi avevo tre anni quando sono andato via. Ricordo una cosa però. Mia madre tenne per quasi tutta la vita una valigia piena di fotografie. Da tempo si era separata da mio padre. E poco prima che morisse chiese al suo secondo marito che gli procurasse una lattadi benzina. Bruciò tutto il contenuto della valigia. Perché? Le chiesi. Perché, rispose, non dovete sapere».
Capì il senso di quella risposta?
«Perfettamente. Conoscevo la drasticità di mia madre. In fondo credo di somigliarle».
C’eravamo interrotti sulla sua entrata in magistratura.
«Fu mia moglie, che avevo conosciuto all’università di Bari, a consigliarmi il concorso. Nel frattempo ero diventato assistente di Aldo Moro. Fu lui a interessarsi a me. Mi sembrò onesto dirgli che ero iscritto alla gioventù comunista. Lei mi sta offendendo, rispose. Ricordo un altro episodio».
Dica.
«C’erano due libri che bisognava portare all’esame del corso di diritto penale: un manuale e un suo libro scritto in italiano e in tedesco. Un mio amico, sapendo che conoscevo il tedesco, mi propose di tradurlo per la parte tedesca e ridurlo a una dispensa. In seguito la vendemmo agli studenti. Passò qualche tempo. Finché un giorno Moro mi convocò nella sua stanza. Sa dottor Violante io non prendo diritti dal mio testo. Ma l’editore mi dice che il libro non si vende quasi più. Aveva la nostra dispensa sulla scrivania. Imbarazzato gli dissi che il suo testo era difficile e per questo lo avevamo semplificato, tradotto e infine ridotto a una dispensa».
E lui replicò?
«Disse solo: permetta questo piccolo insegnamento. Sa qual è la distinzione tra sintesi e banalizzazione? La sintesi toglie il superfluo; la banalizzazione toglie ilnecessario. Fu una grande lezione per me».
Lei dov’era quando Moro fu rapito?
«Al ministero di Giustizia, dove seguivo alcune procure che si occupavano di terrorismo. Quel pomeriggio mi telefonarono dalla segreteria di Enrico Berlinguer. Il segretario aveva indetto una riunione. Oltre Berlinguer c’erano 4 o 5 persone. La discussione era intorno al dilemma se trattare o no. A un certo punto Berlinguer mi chiese cosa ne pensassi. Risposi che il problema era loro.
Ma che se avessero deciso per la trattativa avrebbero dovuto sapere a quali conseguenze andavano incontro.
Scendere a patti con il nemico non era facile né opportuno. Il giorno dopo mi chiamò Zaccagnini, andai a trovarlo. Venne incontro un uomo distrutto. Mi dicono gli amici comunisti che lei è contrario alla trattativa. Allora non si può fare più niente! Esclamò».
Non le chiedo in conclusione con quale dei tanti ruoli che ha svolto ha convissuto più facilmente. Ma quale tra tutti questi ha significato un vero arricchimento.
«L’accrescimento non è mai lineare. Potrei dire che aver fatto il magistrato, partecipato alla lotta politica, essermi impegnato nello studio, ricoperto incarichi di responsabilità nell’antimafia, aver guidato la presidenza della Camera, hanno rappresentato momenti importanti della mia vita. Le sembrerà retorico, ma il vero arricchimento mi è giunto dalla conoscenza delle persone».
Quali?
«Quelle che incontravo la domenica mattina nelle sezionidel Pci, quando andavo a spiegare, che so, la legge del bilancio, e vedevo questi compagni in giacca e cravatta, vestiti come ci si veste la domenica. Curiosi, attenti, partecipi dopo una settimana magari di duro lavoro».
Quel mondo non esiste più.
«Ne sono cosciente e se è per questo non esiste più neppure la sostanza del ricordo di me ragazzo che su indicazione di mio padre andavo a leggere nella sezione comunista di Rutigliano l’Unità. Ero uno dei pochissimi alfabetizzati. Allora la vita dei contadini era durissima.
Eppure venivano la sera nella sezione e io leggevo i titoli del giornale. Poi mi chiedevano di approfondire qualche articolo. Era il loro modo di discutere seriamente delle cose che accadevano nel mondo. Poi accadde una cosa. Il parroco del paese andò dalle mie zie e disse loro: vostro nipote legge l’Unità ai comunisti, forse per equità dovrebbe leggere il giornale dell’azione cattolica a quelli che comunisti non lo sono».
Lei lo fece?
«Sì, e la cosa straordinaria della quale, malgrado la giovane età, mi accorsi, è che i problemi erano spesso gli stessi.
C’era lo stesso dolore. La stessa povertà. La stessa speranza per un futuro migliore. Non vorrei scadere nel melenso, ma quella roba lì fu per me la vera svolta della maturazione».