Tuttolibri, 5 marzo 2023
L’uomo salvato da Primo Levi
È un uomo di cui nessuno conosce la storia. Un manovale di provincia. Un muratore trasfertista. Chiede il sussidio di disoccupazione, quando non trova impiego. E appena può va in Francia, attraverso i sentieri di montagna, per arruolarsi come «lavoratore volontario».
Lorenzo Perrone da Fossano, Piemonte, Italia. Nato nel 1904, muore la sera di mercoledì 30 aprile 1952 distrutto dall’alcolismo. A quel tempo vendeva rottami, con il viso sempre più scavato. Un uomo di poche parole nel titolo scelto da Carlo Greppi per questo saggio che restituisce la voce a chi non l’ha mai avuta. Fu Lorenzo Perrone a salvare la vita a Primo Levi.
Non era un eroe previsto. Ma quando ebbe da rispondere proprio a Levi, che gli spiegava il rischio che avrebbe corso a intrattenersi con lui attraverso il filo spinato che delimitava il lager di Auschwitz, disse così: «Non me ne importa niente». E infatti, si incontrarono ancora. Fu lui, il manovale di Fossano, a passare la zuppa, giorno dopo giorno, al prigioniero numero 1745171.
È un libro sul potere della scelta. Lorenzo Perrone fece la sua, quella che nessuno si sarebbe aspettato da lui. E allora, proprio da qui bisogna partire.
Greppi, il protagonista del suo saggio era un uomo povero. Era un balordo. Parlava solo in piemontese, aveva la terza elementare e faceva a botte. Dove ha trovato la strada per essere un uomo giusto?
«Forse la risposta è più semplice di quello che possiamo immaginare: era un uomo buono. La cosa che mi ha colpito molto, nel ricostruire i vari tasselli della sua vita, è che sembrava destinato a essere uno di quelli che davanti all’inferno se ne approfitta e coglie l’occasione per rivalersi su chi è stato più fortunato di lui nella vita. Invece, Lorenzo è talmente limpido nel suo fare il bene per il bene, per dirla con Levi, che il messaggio è di una banalità commovente e al tempo stesso sconcertante: esistono persone imperfette e complicate che sanno essere buone in qualunque circostanza, anche nelle più drammatiche».
Le sue origini possono aver contato?
«Sì, credo che l’imprinting della sua piccola patria sia contato. E cioè, il borgo vecchio di Fossano: lì dove ci si aiuta e basta. Ma quegli stessi luoghi possono generare anche l’opposto».
Lorenzo Perrone è un migrante. Un lavoratore clandestino pagato poco e trattato male. Può avere avuto un peso?
«Penso di sì. Essere abituato a vivere una condizione di precarietà esistenziale, essere marginalizzato, dover attraversare momenti di fatica e di sofferenza, penso che favorisca l’empatia e il sapersi mettere nei panni dell’altro. Inoltre innesca anche, forse, una sorte di cosmopolitismo dal basso, che ti proietta nella capacità di vedere l’umano nell’umano, a prescindere dall’appartenenza territoriale».
Il primo incontro: giugno del ’44. Perrone vede barcollare Levi ai lavori forzati e, in piemontese, dice: "Ah’s capis, cun gent’ parei". Cioè, sa già tutto. Come mai?
«Anche a me quella frase restituisce una totale lucidità. Lorenzo percepisce questo mondo ribaltato. In cui professionalità come la sua, molto concrete, sono di colpo fondamentali e ti permettono di sopravvivere in condizioni dignitose. Invece, le persone che provengono da situazioni più agiate, sono quelle più in pericolo».
Il pericolo era la Gestapo. Cosa rischiava il muratore?
«Rischiava di finire dall’altra parte. Da lavoratore volontario, al gregge degli schiavi. Rischiava di essere condannato a una morte piuttosto rapida. Lui, fra l’altro, come tutti i lavoratori, vedeva morire i deportati come mosche. Aveva chiarissimo quello che rischiava. Eppure, non portava soltanto un po’ di cibo. Il dato sconvolgente è che, a un certo punto, Primo Levi e Alberto Dalla Volta, suo amico e compagno di prigionia, hanno bisogno di procurarsi un’altra gamella, perché non gli basta un solo contenitore per tutta la zuppa portata da Lorenzo. Ad Auschwitz! È un’immagine fortissima».
Più che un aiuto, quella di Lorenzo Perrone sembra una cura.
«Sì, è proprio un prendersi cura. Io, con prudenza, nel libro scrivo così: come solo un padre potrebbe fare. Lorenzo aveva 15 anni più di Primo, c’era quasi lo scatto di una generazione. In più era un uomo imponente, grosso, "il tacca", al cospetto di questo ragazzo mingherlino, totalmente in difficoltà. Se ne occupa con una dedizione paterna, che abbatte tutte le distanze. Sappiamo quanto sia difficile costruire rapporti solidi e sinceri fra persone di estrazione sociale differente. Ma Primo Levi nella sua vita si è attorniato di figure molte diverse da sé: ne era molto affascinato. Lorenzo, fra queste figure, spicca».
Perché lo chiamavano "il tacca"?
«Perché era un attaccabrighe. Di giorno lui e il fratello facevano i muratori e la sera andavano a bere, e se partiva una rissa loro la facevano. Avevano quella nomea, nel Borgo Vecchio di Fossano».
Perché Levi lo soprannomina, invece, Antonio?
«Perché per lui è il santo che dava da mangiare agli affamati. È il suo Don Chisciotte, una figura quasi epica. Per sua stessa ammissione, Levi ha arrotondato i racconti del vissuto, questo vale anche per alcuni segmenti della vita di Lorenzo. Però, fondamentalmente, il ritratto che ne fa, alla luce della documentazione che ho potuto reperire, sembra molto aderente al personaggio».
Non portava soltanto la zuppa. "Il tacca" mandava cartoline per dire che Primo Levi era vivo. Quelle cartoline arrivano a Torino a Bianca Guidetti Serra: sono parole concordate con il deportato?
«La scrittura, in certi punti, quasi fonde le due persone. La mano che scrive è quella di Lorenzo, ma parla per Primo. È un impasto umano, di cui lui fa da conduttore. Immagino di sì, che i contenuti fossero concordati. Ma è Lorenzo che si assume quel rischio. E a un certo punto, da Torino, arriva un pacco ad Auschwitz con dei dolci, qualcosa di totalmente fuori dagli schemi rispetto a quello che noi possiamo pensare di un posto come quello».
Un giorno si scambiano le scarpe. Quelle di Lorenzo Perrone sono rotte, Primo Levi gliele fa riparare nel campo di concentramento.
«In quel luogo le calzature erano talmente centrali, che non era un gesto qualunque. Direi che proprio le scarpe sono uno dei personaggi non personaggi più presenti nell’opera di testimonianza di Levi».
Levi arriva a Auschwitz e vede un «pianeta di fantasmi». Chi è Perrone, per lui, al di là del filo spinato del campo di concentramento?
«Era stupito, per non dire sconvolto, che in quel luogo dove c’era il contagio del male, ci fosse anche una persona - e fra quelle destinate a sopravvivere, per di più - che faceva il bene per il bene. Secondo la sua stessa ammissione, l’incontro con Lorenzo gli diede non solo la possibilità concreta di sopravvivere, ma anche la forza morale per sopravvivere. In quel luogo dove molti si lasciavano morire per colpa del trauma di scoprire cosa può diventare l’essere umano, lui invece ebbe questo appiglio fenomenale. Lorenzo, in fondo, ci ha regalato Primo Levi, ci ha regalato l’uomo, il testimone e lo scrittore».
Gennaio 1945. Il ritorno. Perrone marcia per mille chilometri e impiega 4 mesi per vedere casa. Cosa trova a Fossano?
«Trova sua padre, come racconto nel libro. E trova una comunità che ha patito la guerra, ma che non può capire quello che ha vissuto lui. Per cui è come se si sottraesse a quella grande ondata di entusiasmo che pervade l’Italia nei mesi dopo la Liberazione. Lui non c’è nell’Italia della ricostruzione, perché lui non ha più voglia di costruire. Tant’è che Lorenzo, che ha sempre fatto il muratore, non lavora quasi più. È come se maturasse un rifiuto per la vita».
Cosa l’ha colpita della loro amicizia dopo la guerra?
«Che andavano insieme in osteria. Per uomini come Lorenzo, quello era il luogo prescelto per passare il tempo. Ma Primo Levi veniva da altri ambienti, era il giovane borghese che stava iniziando la sua carriera di chimico e di scrittore. È un’immagine apparentemente stridente, ma è la storia di un’amicizia. Sembrava impossibile, ma non lo era».
È una storia che ha richiami con il presente di guerra?
«La storia parla sempre al presente. Quello che cerco io, per contrasto, sono le scelte nelle situazioni difficili. Penso che sia fondamentale saper riconoscere la sofferenza dell’altro, anche se sideralmente lontano dalla nostra esperienza. Questo è il messaggio più grande che ci arriva dalla storia di Lorenzo e Primo».
Il giorno del funerale, nella chiesa di San Giorgio a Fossano, prende la parola Primo Levi: "Credo che se oggi sono vivo lo devo a Lorenzo". Cosa racconta questa gratitudine?
«È una relazione asimmetrica che muta e tiene nel tempo. Levi si prodiga in tutti i modi, al suo ritorno, per essere degno di quella amicizia. Sono due persone diverse. Ma entrambi hanno visto il male».
Perché nessuno ricorda Lorenzo Perrone?
«Perché è un poveraccio. È una figura poco conosciuta. Non era un uomo con una buona posizione. Non era un diplomatico. Non era un industriale. Non era come tutti quelli che hanno avuto una meritatissima notorietà per le scelte che hanno fatto, anche perché avevano lasciato tracce di sé. Lorenzo non si è minimamente curato di questo, non ne ha parlato neanche con i famigliari. In più, è un personaggio che può essere percepito come problematico, perché aveva dei tratti caratteriali contraddittori. Lui è la canaglia che diventa santo».
Così si ritorna all’inizio. Cioè alla domanda cruciale: perché Lorenzo Perrone ha scelto di fare la cosa giusta?
«Voglio credere e sono convinto del fatto che la nostra capacità di determinarci sia molto più forte del nostro patrimonio genetico e persino del contesto che forgia il nostro carattere. Lorenzo sembrava un predestinato a incattivirsi. Ma questo è il messaggio: la scelta ce l’hai sempre, indipendentemente da chi sei e dal contesto in cui ti trovi. Quella scintilla può nascere in chiunque, perché tutti ce l’abbiamo dentro».