Specchio, 5 marzo 2023
Biografia di Felix Auger-Aliassime raccontata da lui stesso
Se l’Africa è l’ultima frontiera del tennis, Felix Auger-Aliassime può diventarne il profeta. L’erede di Arthur Ashe e Yannick Noah, un campione dall’identità composita e vincente che si riflette nel doppio cognome - mamma Marie Auger canadese e francofona, papà Sam Aliassime nato in Togo - nella curiosità per il mondo, nel pensiero non banale sul destino multiculturale dello sport.
Numero 9 della classifica mondiale, canadese di Montreal ma allenato da due europei - lo spagnolo Toni Nadal, zio di Rafa, e Frederic Fontang, francese nato a Casablanca - Felix vive in equilibrio armonico fra due o tre mondi, mille culture, due lingue e due religioni. «Aliassime è un cognome musulmano - spiega - è una religione che non pratico, ma verso la quale non ho pregiudizi». Sul campo e fuori ha decisamente l’aria del predestinato: fisico perfetto per il tennis del terzo millennio (un metro e 93 per 88 chili), nato neanche a farlo apposta lo stesso giorno di Roger Federer (l’8 agosto), elegante come un modello, educato come un gentleman d’altri tempi. A dicembre ha guidato alla conquista della prima Coppa Davis il Canada, forse la squadra più etnicamente varia nella storia dell’insalatiera: oltre a lui c’erano Denis Shapovalov, nato a Tel Aviv da un russo ortodosso e una ebrea russa; Vasek Pospisil figlio di due immigrati cechi; Gabriel Diallo, madre di origine ucraina e padre della Guinea. Chi meglio di Auger-Aliassime, allora, per aprire l’ultimo orizzonte?
Il tennis, nato nella sua versione moderna in Inghilterra, dominato per decenni da Usa e Australia, robustamente vitaminizzato dal Sudamerica e speziato dalle dinastie indiane degli Amritraj e dei Krishnan, negli ultimi tre lustri oltre al Giappone di Key Nishikori ha «riscoperto» la Cina, prima con Li Na e le sue sorelle, oggi nel maschile con Yibing Wu, primo prodotto di Pechino a vincere un torneo Atp; e persino la Thailandia qualche anno fa ha avuto un top ten grazie a Paradorn Srichapan. La tunisina Ons Jabeur ha trasformato in eccellenza l’eredità di buoni giocatori magrebini ed egiziani del passato - El Aynaoui, Arazi, Alami, El Shafei - il giovane Abedallah Shelbaya a Doha è diventato il primo giordano a entrare in un tabellone Atp. Il Sud Africa conta campioni e finalisti Slam - da Cliff Drysdale a Kevin Curren, da Johan Kriek a Kevin Anderson - all’appello dunque manca solo l’Africa sub-sahariana, quella tanto cara a Noah, figlio di un calciatore del Camerun.
A Doha, il torneo che trent’anni fa rilanciò il tennis in medio oriente e dove oggi è direttore del torneo il marocchino Karim Alami, abbiamo incontrato Auger-Aliassime. Felix, è vero che uno dei suoi sogni è palleggiare con Noah?
«Sì, sarebbe divertente. È stato un giocatore carismatico, oltre che molto divertente da vedere. Guardando i vecchi video mi hanno colpito le sue doti atletiche davvero uniche. È un personaggio che va oltre il tennis, sarebbe bello condividere il campo con lui. Ho già avuto l’occasione di incontrarlo quando ero junior, ma avevo appena perso una finale ed ero devastato, quindi non sono riuscito ad apprezzare il momento. Spero di avere altre occasioni in futuro».
Anche lei come Yannik appartiene a due culture diverse. È ’ uno dei motivi che lo rende ancora più interessante ai suoi occhi?
«Senza dubbio. Noah ha origini africane e francesi, mi ritrovo in tante cose che dice, nella passione per questo sport, per la vita. Si presenta sempre con un sorriso, mi piace il suo spirito. Non sarò mai la stessa persona, ma lo ammiro e cerco di ispirarmi a lui».
Il tennis è sinceramente multiculturale o ci sono ancora pregiudizi?
«Il tennis è nato in Europa, in Inghilterra, certamente all’inizio era giocato da persone di alto livello sociale ma negli ultimi anni ci sono stati importanti progressi in termini di accessibilità. Io faccio parte di questo processo. Mi considero privilegiato perché ho potuto allenarmi con mio padre e i miei genitori hanno investito su di me, ma ora sento tante belle storie di giocatori provenienti da tutto il mondo in grado di giocare ad ottimi livelli. Nel circuito ci sono giocatori asiatici, cinesi, americani, in Europa poi provengono praticamente da ogni nazione. Mancano però gli africani…».
Qual è la soluzione?
«Il problema riguarda le strutture, la qualità dell’allenamento, i coach. L’Africa è stata in grado di crescere buoni giocatori nel calcio, nell’atletica ci sono tanti campioni, ma negli altri sport è una lotta quotidiana. Nel tennis occorre una buona tecnica sin da giovani. L’ho visto con i miei occhi in Togo: laggiù le strutture ci sono anche, mancano le competenze e l’esperienza. Spero che in futuro avremo buoni giocatori non solo dall’Africa settentrionale, dalla Tunisia o dal Marocco, o dal Sud Africa, ma anche dall’Africa centrale».
Pensare ad un grande torneo in Africa è utopia?
«Mi piacerebbe molto. L’anno scorso sono stato in Marocco, ma il nord è diverso. L’Africa è un grande continente e la parte araba fa storia a sé, sicuramente è molto diversa dal Togo. Sarebbe bello riuscire a coinvolgere altri stati ma credo sia una rivoluzione che va oltre il tennis. Mio padre è stato in Togo di recente e mi ha detto che le infrastrutture tennistiche sono molto migliorate, quindi perché no, sarebbe bello avere anche dei grandi tornei africani. Ma prima devono crescere i giocatori».
Ha l’ambizione di essere un modello per i giovani?
«Credo che debba avvenire naturalmente, non è una cosa che puoi forzare. Se ti comporti bene e fai le cose giuste, forse in futuro parleranno bene di te. Forse potrò ispirare i giovani, di certo spero di diventare un buon esempio».
La sua generazione è pronta a ricevere l’eredità di Federer, Nadal, Djokovic e Murray?
«Chi ci ha preceduto ha spinto questo sport oltre i limiti. Ha citato campioni che hanno portato il tennis a un altro livello, quello che hanno fatto è unico. Penso che prima di tutto la mia generazione si debba concentrare sul tennis, sulle prestazioni in campo, sulle vittorie. Soprattutto credo sia importante essere se stessi, imparare dagli errori e dare un buon esempio».
Lei è nato in Nord America, ma invece del football o dell’hockey su ghiaccio ha scelto il tennis: come mai?
«Da piccolo con gli amici ho praticato tanti sport per divertimento, ma il tennis è sempre stato il primo. E la ragione è mio padre Sam. L’amore per il tennis mi arriva da lui, che ha imparato a giocare da giovane quando gli europei sono arrivati in Togo, è diventato coach ed è stato il maestro mio e di mia sorella. Per quello ho amato subito il tennis e ho sempre avuto l’ambizione di diventare un ottimo giocatore. E quel sogno lo sto ancora inseguendo».
Il suo fisico sarebbe perfetto per molti sport: lo è anche per il tennis del futuro?
«I tennisti sono sempre più alti, è vero, e io dai miei genitori ho ereditato un buon dna in termini di forza e atletismo che ho sviluppato da teenager. Ora che il tennis è diventato così veloce devi essere forte, flessibile, con doti cardiache all’altezza. Credo di avere il fisico giusto per sostenere queste sfide».
Lei è un ragazzo molto curioso: quali sono i suoi interessi oltre il tennis?
«Mi ritengo un privilegiato perché posso viaggiare continuamente. Mi piace osservare, ascoltare quello che dice la gente, conoscere i luoghi che visito, approfondire la loro cultura, la loro storia, girare per musei. Alla fine la conoscenza è la cosa più preziosa della vita. Sono ancora molto giovane ma spero di poter imparare molto, e il miglior strumento per arrivare alla conoscenza è la curiosità».
Quanto è stato importante vincere la Davis con il Canada?
«Sono un sostenitore del vecchio formato della Coppa, credo che ad esempio una finale fra noi e voi giocata in Italia, con il sostegno del vostro pubblico, avrebbe avuto un fascino incredibile, molto più di una finale giocata in Spagna con l’Australia. Ma è anche giusto guardare oltre e per alcuni di noi, per me sicuramente, la vittoria di Malaga rimarrà uno dei momenti migliori della vita. Sono fiero di aver vinto l’ultimo match, un bellissimo momento che custodirò a lungo».
Lei è amico di Matteo Berrettini: Matteo le ha perdonato di averlo battuto in semifinale a Malaga?
«Non ne abbiamo parlato… Matteo è un gran giocatore, sono sicuro che dopo le pause dell’anno scorso dovute agli infortuni potrà tornare dove gli spetta, nelle prime posizioni al mondo. Quanto alla Davis, beh, è stato un match complicato, ma se giochi per la tua nazione devi badare al sodo. So quanto è importante il tennis in Italia, ed è il motivo per cui mi piace molto giocare da voi. Lo scorso anno ho vinto un torneo Atp a Firenze, ogni sera c’era il pienone di pubblico. I fan italiani sono i migliori al mondo. Ricordo di aver detto alla squadra e al capitano Volandri dopo la finale che noi siamo stati fortunati a vincere quest’anno, ma che con i giocatori che ha, l’Italia vincerà di sicuro la Davis entro tre anni».