Tuttolibri, 4 marzo 2023
Su "Il crinale" di Michael Punke (Einaudi)
Ero bambino quando scoprii un un fumetto intitolato Little Big Horn, di Paolo Eleuteri Serpieri, storia della battaglia omonima combattuta dal Settimo Cavalleria guidato dal tenente colonnello George Armstrong Custer il 25 giugno 1876 contro le tribù Lakota, Cheyenne e Arapaho guidate da Cavallo Pazzo, Stella del Mattino e Toro Seduto. L’esito è noto: Custer sottovalutò le forze avversarie e divise il suo contingente in tre tronconi, rimanendo ucciso nella disfatta più tragicamente famosa patita dall’esercito statunitense nel corso delle Guerre Indiane. Tra i meriti di Eleuteri Serpieri, quello di presentare in modo obiettivo entrambi gli schieramenti: a cominciare dalla figura di Cavallo Pazzo, assurta intanto a simbolo della lotta dei nativi sia per le sue qualità umane sia per le sue capacità militari.
E proprio la figura di Cavallo Pazzo è al centro del nuovo romanzo di Michael Punke, Il crinale, tradotto per Einaudi da Gaspare Bona e ambientato giusto dieci anni prima della battaglia di Little Big Horn. Siamo infatti nel 1866: la Guerra Civile americana si è conclusa da solo un anno, con oltre 600mila morti e 400mila feriti tra Unionisti e Confederati, e Punke compie la stessa operazione di Eleuteri Serpieri, nel senso che anche nel suo romanzo - ispirato a fatti realmente accaduti - il lettore trova entrambi i punti di vista, quello dei Lakota capitanati da Nuvola Rossa e da un giovane ma già carismatico Cavallo Pazzo e quello dei soldati che con tanto di donne e bambini al seguito hanno costruito un nuovo avamposto, il Forte Phil Kearny.
Comandati dal colonnello Henry Carrington, un militare che prima di portare la divisa ha studiato da ingegnere, gli uomini dell’esercito USA hanno edificato il forte tagliando alberi su alberi nel bel mezzo della valle del fiume Powder, allo scopo di mettere in sicurezza la strada battuta in direzione Ovest da sempre nuove carovane di coloni e da torme di cercatori d’oro, la pericolosa Pista del Montana o Pista Bozeman. Il fatto è che per i Lakota quelle terre di caccia sono sacre. E un forte tanto grande, protetto da una palizzata alta due metri e mezzo e lunga circa 1.200 metri, con tanto di armeria, stalle, acquartieramenti per i soldati e alloggi per i civili è un pessimo segnale: i bianchi hanno tutte le intenzioni di restare.
Così, mentre Nuvola Rossa si adopera per tessere alleanze, Cavallo Pazzo e i suoi guerrieri conducono fin da subito ripetuti attacchi, disturbando gli uomini di Carrington durante tutto il periodo della costruzione del forte. Ma si tratta di scaramucce, piccole imboscate ai soldati e ai taglialegna incaricati di procurare il materiale necessario all’edificazione dell’avamposto.
Cavallo Pazzo intuisce che il solo modo per avere la meglio sul contingente di Carrington (in cui non è difficile imbattersi in chi è incline alla diserzione, visto che il miraggio dell’oro è una sorta di calamita per chi può contare solo sulla paga di soldato, e nel quale si fanno sentire i postumi della guerra fratricida che fino a pochi mesi prima ha visto combattere gli uni contro gli altri uomini che pur parlando la stessa lingua indossavano divise dal colore diverso) è attirare il maggior numero di soldati fuori dal forte. Uno stratagemma destinato ad avere successo nonostante i progressi fatti dalla tecnologia rispetto a quanto visto sui campi di battaglia della Guerra Civile (ora i soldati hanno in dotazione fucili più corti che non hanno bisogno di essere ricaricati dopo ogni colpo come i vecchi moschetti, mentre la maggior parte degli indiani usa ancora l’arco e le frecce) anche grazie alla supponenza del capitano Fetterman e al cieco furore del tenente Grummond, convinto della superiorità dei bianchi e dell’idea che l’unico indiano buono sia quello morto.
Abile nella descrizione del paesaggio in cui si svolsero i fatti nella realtà, Punke ricostruisce sapientemente il contesto in cui ebbe luogo il massacro passato alla Storia come la battaglia di Fetterman, e mano a mano che la tensione cresce e ci si avvicina al cruento finale si ha la sensazione di andare a cavallo, di respirare la brezza mattutina andando a caccia di alci e bisonti, di eviscerare le prede, stendere le pelli e di danzare intorno al fuoco, fino a sentire gli spari, il fragore delle cariche, le grida dei feriti e dei caduti intorno al crinale dove i soldati americani, attirati abilmente in trappola dalle esche escogitate da Cavallo Pazzo, patirono quella sconfitta pesantissima.
Certo colpisce che nel tentativo va da sé encomiabile di rendere a sua volta giustizia ai nativi dopo i tanti torti patiti specie da parte di Hollywood (almeno fino a Soldato Blu, il film di Ralph Nelson del 1970), Punke tenda a fare un’operazione diametralmente opposta: Cavallo Pazzo e i suoi hanno tutte le migliori qualità, sono coraggiosi, intelligenti, umili, crudeli solo se necessario, mentre i bianchi ostentano i peggiori difetti, in un misto di incompetenza, arroganza, razzismo e ubriachezza molesta. Il tempo in cui viviamo è del resto poco incline alle sfumature, e certo non è un caso che proprio gli Stati Uniti siano la patria della cancel culture. Ciò detto, Il crinale resta un grande romanzo di genere Western aggiornato alla cosiddetta nuova sensibilità.