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 2023  marzo 05 Domenica calendario

Biografia di Tilla Durieux

È difficile, seguendo i percorsi di Tilla Durieux (1880-1971), capire se le tante vite da lei incarnate fossero specchi della sua personalità ovvero parti da interpretare. Chi fu veramente? La bimba cresciuta in una delle famiglie borghesi di Vienna che stipano la scrittura di Arthur Schnitzler? La ragazza che ogni giorno vi pronunciava il suo mantra, «Raus!», «Via di qua!», e che alla prima occasione tentò la fortuna nei teatri di provincia, a Olmütz o a Breslavia? La giovane attrice capace di convincere Max Reinhardt, il più importante regista nel mondo austro-tedesco, ad assumerla a Berlino, e che in una sola serata, subentrando a una collega nel ruolo eponimo della Salome di Wilde, ebbe accesso alla fama? La moglie di Paul Cassirer, il più importante editore e mercante d’arte di quegli anni leggendari? Il simbolo, ben oltre il palcoscenico, della cultura nella Repubblica di Weimar? La profuga dal nazismo, scappata con il terzo marito (ebreo come i primi due: lei non lo era), divenuta honduregna sui documenti per accedere al visto americano (non ci riuscì) e riparata poi in Jugoslavia, dove aprì un Hotel Cristallo sulla costa croata? La donna sola che a Zagabria si guadagnava da vivere cucendo costumi per il teatro delle marionette? La trionfatrice al suo ritorno in Germania dopo la guerra? L’autrice di due libri di memorie, di un roman à clef e di una pièce?
Nel 1965 venne intervistata dalla televisione tedesca, il video si può vedere nella mediateca online di ARD. Quando le vien chiesto quale sia il suo segreto, la chiave del successo e della longevità, Tilla risponde tenendo un low profile, citando un regime dietetico regolato e l’importanza dello humor. È chiaro che sta recitando nel suo ultimo ruolo, quello della Grande Dame del teatro germanico; e lo fa in modo irresistibile, con una finta semplicità, una civetteria delicatissima, un guizzo nello sguardo e nel sorriso che dànno tardiva ma apprezzabile ragione del suo mito. Osservandola si comprende perché a quel suo volto esotico, che la faceva piombare sulla scena come venisse da ignote terre e razze orgogliose, non abbiano resistito decine di artisti a cominciare dal primo marito, Eugen Spiro, che colse in lei un’allegra impertinenza giovanile destinata a non smentirsi mai.
Fu Paul Cassirer, sposato nel 1910, a far sì che i tratti di Tilla Durieux venissero eternati in un numero impressionante di quadri, sculture, fotografie: fu lui a commissionare le sue effigi e a innescare il processo per il quale l’attrice divenne, oltreché una donna di cui investigare il carattere, un modello formale, un êidos archetipico. A Vienna, nella mostra da poco terminata presso il Leopold Museum e che da maggio si trasferirà al Georg Kolbe Museum di Berlino, se ne sono visti decine di esempi. Dunque Renoir, che la avvolge nella luce lenta e sontuosa carezzante il costume per Pigmalione disegnato da Poiret; Franz von Stuck, che la fotografa e la trasforma poi in dipinto nel simbolo seduttivo di Circe, emblema della femme fatale; Max Slevogt e il suo Rollenporträt come moglie di Putifarre nella Leggenda di Giuseppe di Strauss e Hofmannsthal; Kokoschka che come nessun altro si immerge nel mistero di quello sguardo enigmatico e silenzioso; Max Oppenheimer con le sue tinte cineree; e ancora Nolde, Orlik, Corinth, Gulbransson e tanti altri. Forse l’artista davvero capace di superare l’immagine di Tilla come personaggio e di risolverne il profilo psicologico in una maschera impermanente è stato Ernst Barlach, che ne ha scolpito il capo in parecchie varianti, tutte somiglianti tra loro, severe, austere, insofferenti alle mode del tempo. Il suo è un processo mitopoietico che una splendida fotografia del 1963 suggella: la vecchia attrice vi è còlta intenta alla lettura, con l’occhialino in mano, sotto la sfilata del Fries der Lauschenden di Barlach. In poche immagini come in questa si coglie la paradossale unità della cultura tedesca del Novecento, ciò che nemmeno crimine e tragedia hanno potuto annientare.
Ma la Durieux è stata pure un’icona di moda, la personificazione della donna indipendente e moderna per una generazione che voleva riscattarsi dalla Prima guerra mondiale, indossare gonne corte, tagliare i capelli e correre in automobile o in aereo come lei fece. È stata un soggetto fotografico distribuito in milioni di esemplari. È stata oggetto di infiniti articoli sui rotocalchi, e di molti altri è stata autrice. Ed è stata un’attrice meravigliosa, la si guardi in un film muto di Fritz Lang o la si ascolti su YouTube mentre legge testi poetici, fissando la norma di cos’è la prosodia.
Tutte queste dimensioni vengono illustrate dalla mostra viennese e berlinese: l’apparato iconografico è impressionante sia per chi la visiti, sia per chi affronti le 300 pagine del catalogo. Mai si è radunato un simile tesoro di immagini relative a Tilla Durieux. Tuttavia, nei saggi si fa troppo poco menzione di alcuni aspetti biografici non secondari. Il primo coincide con l’affaire scatenatosi con la morte di Paul Cassirer. All’inizio del 1926, esasperato dalle continue richieste di separazione da parte di Tilla, Cassirer si uccise nella sala d’attesa dell’avvocato divorzista. All’epoca lo scandalo fu immenso (erano protagonisti del jet set, personaggi di cui si parlava tutti i giorni) e per qualche tempo la Durieux dovette rinunciare alle scene. Il secondo riguarda invece la dimensione politica della sua attività sia a Berlino, dove ebbe un ruolo importante nel sostegno ai movimenti di sinistra radicale, sia a Zagabria, dove fu attiva nella resistenza antifascista. Di questi due argomenti (sui quali si può leggere nelle due autobiografie dell’attrice) si trova poca traccia nel catalogo, che in compenso fa sfoggio di aggiornamento culturale con l’uso pervasivo degli asterischi «non binari» e con qualche tirata moralistica sul fatto che «a noi oggi» risulterebbe inaccettabile certa descrizione dell’aspetto forestiero di Tilla Durieux (e del collega Paul Wegener) tramandata dalle cronache dell’epoca. Ma ormai questa prassi correttiva è divenuta un riflesso condizionato, rispetto al quale il cane di Pavlov è un dilettante